Il cinema è sempre stato la grande fuga. Un rifugio dove le storie si concludono con speranza, dove gli amori appassionati trionfano e la bellezza vince sulla brutalità del quotidiano. Eppure il 2025 ha rappresentato un anno paradossale: mentre il mondo reale sembrava trasformarsi in un dramma continuo.
I film che ci hanno offerto quella fuga necessaria portavano con sé una vibrante urgenza documentaristica. La recente condanna inflitta al regista iraniano Jafar Panahi dal regime del suo paese ha aggiunto un ulteriore strato di crudeltà alla visione del suo “It Was Just an Accident”, trasformando la finzione in profezia.
I critici cinematografici di Variety, Peter Debruge e Owen Gleiberman, hanno navigato attraverso un panorama dove la linea tra schermo e realtà si è fatta sempre più sottile. Hanno trovato opere che ci hanno fatto sognare proprio perché abbastanza potenti da tenerci svegli, da “Marty Supreme” a “28 anni dopo”, passando per rivelazioni internazionali che hanno ridefinito il linguaggio cinematografico stesso.
Al vertice della classifica di Debruge si colloca “Dreams”, terzo capitolo della Oslo Trilogy del regista norvegese Dag Johan Haugerud. Il film segue la diciassettenne Johanne, interpretata da Ella Øverbye, che scopre l’amore prima attraverso le pagine di un libro, poi nella forma travolgente di un’ossessione adolescenziale per un’insegnante di nome Johanna. Quello che rende questo film straordinario è il modo in cui Haugerud, romanziere prestato al cinema, utilizza colore, texture e musica per illuminare il risveglio personale della protagonista.
La narrazione fuori campo, spesso considerata un espediente narrativo facile, diventa nelle mani di Haugerud uno strumento di profondità psicologica. Il regista osa porre domande provocatorie su come le diverse parti di una relazione vivano esperienze completamente differenti della stessa storia. È un film queer che riflette con cuore aperto una generazione disinteressata alle etichette, mantenendo la promessa lasciata in sospeso da “The Worst Person in the World” di Joachim Trier.
Al secondo posto troviamo “La storia di Souleymane” di Boris Lojkine, un’opera che adotta lo stile urgente e strappato alla realtà dei fratelli Dardenne. Il film si concentra su un singolo, intensamente riconoscibile esempio della crisi migratoria europea: un rifugiato guineano che cerca asilo a Parigi. Abou Sangaré, meccanico senza esperienza attoriale precedente, ha vinto a Cannes per la sua interpretazione di Souleymane, un personaggio la cui storia è direttamente informata dall’esperienza personale dello stesso Sangaré.
Lojkine espone una Parigi lontana dalle cartoline: una città dove chi non ha documenti deve pagare tariffe esorbitanti a intermediari opportunisti, dove la lotta quotidiana per un posto dove dormire consuma ogni energia. Il ritratto attento del regista mette un volto umano su una crisi più ampia, invitandoci a considerare le vite ricche di tutti quei fattorini anonimi che normalmente ignoriamo. In mezzo a tanta ostilità, anche un piccolo gesto di gentilezza spontanea può significare il mondo.
“Una battaglia dopo l’altra” di Paul Thomas Anderson occupa il terzo gradino del podio. Si può tracciare una linea diretta dal western classico americano attraverso “Sentieri selvaggi” di John Ford fino a questa orgia postmoderna e selvaggia, dove la giustizia nella forma del colonnello Lockjaw di Sean Penn arriva per un vecchio fuorilegge trasandato interpretato da Leonardo DiCaprio. Il film rappresenta l’ultima decostruzione dell’archetipo dell’eroe americano: in un film più classico, Bob Ferguson sarebbe quello che salva la giornata quando Lockjaw rapisce sua figlia Willa, ma parte della forza narrativa qui sta nel fatto che il personaggio di DiCaprio, un tempo membro intraprendente di un gruppo idealista anti-governativo, è troppo intontito da anni di indolenza e abuso di droghe per essere d’aiuto.
Bob è sempre due passi indietro, mentre Willa si rivela abbastanza intelligente da difendersi da sola. La scena preferita di Debruge avviene tra DiCaprio e Teyana Taylor, che interpreta la madre indipendente di Willa, quando lei abbandona la famiglia. Quel momento è un indizio su dove risieda veramente l’anima del film: un ritratto complicato dell’esperienza di paternità di Anderson.
Al quarto posto si posiziona “Il suono di una caduta” della visionaria Mascha Schilinski, un film che richiede di ripensare il modo in cui diamo senso al cinema. Schilinski propone un’alternativa intuitiva a un secolo di narrativa cinematografica dominata da registi uomini che hanno plasmato il modello del protagonista orientato agli obiettivi, che cerca di risolvere un problema specifico in un arco temporale limitato. Al contrario, la regista sceglie di concentrarsi su un’unica location, una fattoria rurale tedesca vista attraverso gli occhi di più generazioni.
Il film tesse enigmaticamente avanti e indietro attraverso le ere, trovando echi di traumi e tragedie passate. Una giovane donna, che deve essere sterilizzata prima di servire come domestica, si getta sotto un carro, mentre un’altra ragazza salta dal fienile, convinta di poter volare. Questa forma non convenzionale può disorientare all’inizio, ma si rivela straordinariamente gratificante quando iniziamo a conoscere i personaggi e a stabilire connessioni astratte, associando liberamente tra i vari filoni narrativi.
Non erano trascorsi proprio 28 anni quando il regista Danny Boyle e lo sceneggiatore Alex Garland ripensarono radicalmente il film di zombie con “28 Days Later”, spostando l’attenzione dal commento sociale dei film “Living Dead” di George A. Romero a un trattamento viscerale delle fobie sottostanti al genere: paura dell’infezione, comportamento della folla e perdita di autonomia. Ignorando saggiamente il sequel relativamente debole “28 settimane dopo”, la coppia ora torna con “28 anni dopo” in un Regno Unito ancora in quarantena, osservando come i sopravvissuti umani siano regrediti a tribù primitive.
Nel frattempo, gli infetti si sono evoluti, fornendo al film alcuni brividi altamente efficaci. Ma la ragione per cui questo film ha scosso emotivamente il pubblico è che Boyle e Garland hanno chiaramente riconosciuto di star raccontando una narrativa post-pandemica per una società che aveva appena attraversato una pandemia reale, costruendo un’opportunità per elaborare collettivamente ciò che abbiamo vissuto attraverso la sequenza catartica del Bone Temple.
Il ping-pong è un passatempo piuttosto sciocco, una nozione che non sfugge al regista Josh Safdie, che dopo l’attacco di panico esteso di “Diamanti grezzi” offre una svolta mozzafiato sul genere del film sportivo con “Marty Supreme”. Timothée Chalamet, una molla compressa che vibra letteralmente sullo schermo, interpreta un loquace venditore di scarpe di New York di nome Marty Mauser, convinto di essere il miglior giocatore di ping-pong di tutti i tempi, un’impresa di grandezza discutibile, fino a quando un professionista giapponese con un colpo micidiale non ridimensiona le sue ambizioni.
Il 2025 cinematografico si è rivelato un anno in cui la fuga e la realtà hanno danzato insieme, dove i migliori film non ci hanno permesso di dimenticare il mondo, ma ci hanno dato gli strumenti per comprenderlo meglio. Dalle strade di Parigi alle campagne tedesche, dai campi post-apocalittici britannici ai tavoli da ping-pong di New York, il cinema ha continuato a essere quello che è sempre stato: uno specchio che riflette non solo ciò che siamo, ma ciò che potremmo diventare.
fonte Variety