Quando Martin Scorsese firma un thriller psicologico, il risultato non può che essere un’opera stratificata, intensa e capace di lasciare lo spettatore sospeso tra realtà e illusione. “Shutter Island”, uscito nel 2010, ha fatto esattamente questo: ha conquistato il pubblico mondiale con un punteggio di 8.2 su IMDb basato su oltre 1,6 milioni di voti, diventando uno dei film più discussi e reinterpretati dell’ultimo decennio.
La pellicola vanta un cast stellare con Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley e Michelle Williams, e si svolge nell’inquietante cornice dell’ospedale psichiatrico Ashecliffe, situato sulla fittizia Shutter Island nel porto di Boston. Un dettaglio che rende tutto ancora più suggestivo: le riprese si sono svolte in un vero manicomio abbandonato della città. La trama segue Edward “Teddy” Daniels, interpretato da DiCaprio, un marshal federale incaricato di indagare sulla misteriosa scomparsa di una giovane donna dall’ospedale. Al suo fianco c’è il nuovo partner Chuck Aule, con cui tenta di dipanare quella che sembra una serie di cospirazioni all’interno della struttura. A sovrintendere Ashecliffe c’è il dottor John Cawley, figura enigmatica che sembra ostacolare l’indagine di Daniels. Nel frattempo, il protagonista è tormentato da flashback della Seconda Guerra Mondiale e dalla morte della moglie Dolores. O almeno, questo è ciò che crediamo fino al colpo di scena finale.
Il twist conclusivo, che rivela come Daniels sia in realtà Andrew Laeddis, un paziente di Ashecliffe, ha scioccato gli spettatori per la sua misdirection magistrale e la sua ambiguità emotiva. Due ore e mezza di cinema raffinato culminano in un finale che continua a generare dibattiti ancora oggi. Ma prima di arrivare a quella rivelazione devastante, il film semina indizi, momenti apparentemente inspiegabili e scene che lasciano perplessi. Riviviamo insieme i momenti più enigmatici di “Shutter Island” e scopriamo cosa significano davvero.
Una delle sequenze più sconcertanti avviene proprio all’inizio, quando i due marshal sbarcano sull’isola. Appena arrivati all’ospedale psichiatrico, Daniels e Aule vengono accolti dal vicedirettore McPherson, ma qualcosa nell’atmosfera non quadra. Le guardie sembrano nervose, con le mani sulle armi e sguardi penetranti rivolti a Daniels. Alcuni lo fissano come se lo conoscessero già. Daniels stesso commenta questo strano comportamento, che McPherson riconosce vagamente senza dare spiegazioni. La tensione aumenta quando entrano nella struttura: alcuni pazienti lo salutano con sorrisi inquietanti, una donna gli fa il gesto di fare silenzio prima di sorridere.
Perché questa accoglienza così particolare? La risposta diventa cristallina solo alla fine. Le guardie sono in allerta perché sanno che Daniels è in realtà Andrew Laeddis, un paziente violento con tendenze aggressive. Temono che possa uscire dalla sua illusione e diventare pericoloso. I pazienti, dal canto loro, lo riconoscono come uno di loro, ma sono stati istruiti a non interagire troppo con lui. Lo salutano per riconoscerne la presenza, ma senza compromettere l’elaborato gioco di ruolo terapeutico in corso.
Un altro momento che lascia lo spettatore spiazzato è il ritrovamento del biglietto criptico nella stanza di Rachel Solando, la donna presumibilmente scomparsa. Quando Daniels, Aule e il dottor Cawley perquisiscono la camera, il marshal scopre un foglietto nascosto sotto una piastrella del pavimento. Il messaggio recita: “La legge del 4; Chi è il 67?” Nessuno dei presenti sembra capirne il significato, e la reazione enigmatica di Cawley fa sospettare che stia nascondendo qualcosa. È una cospirazione? Un codice segreto? Un avvertimento?
La verità è molto più sottile e tragica. Non è mai esistita nessuna Rachel Solando: l’intera vicenda della scomparsa è stata orchestrata per dare a Laeddis un’indagine da condurre, un modo per farlo interagire con la sua psicosi. Il biglietto è stato deliberatamente piazzato da Cawley per tentare di innescare un ricordo nella mente del paziente. “La legge del 4” si riferisce agli anagrammi: Andrew Laeddis ed Edward Daniels, Dolores Chanal e Rachel Solando. Il numero 67 indica il paziente numero 67 di Ashecliffe, che è proprio Laeddis stesso. Alla fine del film, quando Cawley svela la verità, mostra a Daniels il significato del messaggio, confermando che tutto faceva parte della terapia.
Tra i momenti più inquietanti e visivamente potenti ci sono le allucinazioni ricorrenti di Daniels. Per tutto il film, il protagonista è perseguitato da visioni della moglie Dolores e da flashback della liberazione del campo di concentramento di Dachau durante la Seconda Guerra Mondiale. Quando Dolores appare per la prima volta nelle sue visioni, sembra avvolta dalle fiamme, poi completamente bagnata, con una ferita sanguinante sullo stomaco. Gli chiede di restare e di cercare Andrew Laeddis, l’incendiario che secondo Daniels ha ucciso la sua famiglia, ma che in realtà è lui stesso.
Man mano che la narrazione procede, i flashback diventano sempre più intensi e disturbanti, fino a fondersi in una sequenza devastante che sovrappone le immagini di Dachau alla morte della moglie e dei figli, che Daniels visualizza come Rachel invece che come Dolores. Queste visioni frammentate sono la chiave per comprendere il trauma di Laeddis. I ricordi di Dachau sono autentici e rappresentano il disturbo da stress post-traumatico causato dagli orrori che ha testimoniato. Le allucinazioni di Dolores, invece, sono memorie represse della verità: Laeddis non riesce ad accettare di aver ucciso la moglie dopo che lei aveva annegato i loro tre figli. La sua mente ha costruito un’elaborata illusione, mescolando il trauma bellico con la tragedia familiare, sostituendo i nomi reali con quelli fittizi per proteggersi dalla verità insopportabile.
Un’altra scena che genera perplessità è l’intervista con la paziente Bridget Kearns. Durante il colloquio, la donna compie una serie di azioni bizzarre che sembrano non avere senso. Prima scarabocchia qualcosa nel taccuino di Daniels, che si rivelerà essere la parola “SCAPPA”. Poi mima il gesto di bere un bicchiere d’acqua che appare vuoto, ma quando viene inquadrato sul tavolo è mezzo pieno, per poi tornare vuoto. Infine, non appena Daniels pronuncia il nome Andrew Laeddis, la donna si agita visibilmente e interrompe bruscamente l’incontro.
Questi dettagli apparentemente casuali sono in realtà significativi. Il bicchiere d’acqua che cambia rappresenta l’inaffidabilità della percezione di Laeddis: ciò che vede non è necessariamente reale, la sua mente distorce la realtà. L’avvertimento “SCAPPA” è un tentativo della paziente di comunicare con lui, forse perché comprende che è intrappolato in un’illusione o perché teme per la sua incolumità. La sua reazione al nome Andrew Laeddis suggerisce che lei conosce la vera identità di Daniels e si spaventa quando viene menzionato quel nome, forse consapevole della violenza di cui è capace.
“Shutter Island” è un capolavoro di costruzione narrativa proprio perché ogni dettaglio, ogni inquadratura, ogni dialogo apparentemente casuale acquisisce un significato completamente diverso alla seconda visione. Martin Scorsese ha orchestrato un’esperienza cinematografica che costringe lo spettatore a mettere in discussione tutto ciò che ha visto, trasformando la confusione iniziale in una comprensione profonda e dolorosa della psiche umana e del modo in cui affrontiamo i traumi insopportabili.
Il film ci ricorda che la mente ha straordinari meccanismi di difesa, capaci di costruire realtà alternative pur di proteggerci da verità troppo devastanti da affrontare. La domanda finale che Laeddis pone a Chuck, chiedendo se sia peggio vivere da mostro o morire da uomo buono, lascia volutamente ambiguo se abbia davvero riacquistato la lucidità o se abbia scelto consapevolmente di tornare nella sua illusione. È questo tipo di ambiguità morale e psicologica che rende “Shutter Island” un’opera che continua a risuonare, a confondere e a illuminare, visione dopo visione.