Oltre il 30% di share al debutto. Il miglior esordio dell’anno per una serie italiana. Numeri che raccontano di un successo clamoroso, ma dietro quel dato c’è un universo fatto di scelte coraggiose, mesi di preparazione e un lavoro titanico che ha coinvolto migliaia di persone.
La nuova “Sandokan” con Can Yaman non è semplicemente un remake nostalgico dello sceneggiato anni Settanta con Kabir Bedi. È un’operazione culturale che ha saputo reinterpretare l’eroe senza tempo nato dalla penna di Emilio Salgari per un pubblico contemporaneo, senza tradirne l’essenza. Il viaggio verso questo risultato è iniziato cinque anni fa, quando Alessandro Sermoneta ha scritto le prime cento pagine di soggetto. Un centinaio di pagine che sono diventate la spina dorsale di otto episodi da cinquanta minuti ciascuno, distribuiti in quattro prime serate. La scrittura è stata un processo lungo e stratificato: cinque story editor hanno lavorato per oltre un anno a sviluppare copioni e dialoghi, mentre il personaggio di James Brooke veniva completamente ripensato rispetto all’Adolfo Celi degli anni Settanta, ancorandolo maggiormente alla figura storica documentata nelle biografie britanniche.
Jan Maria Michelini, regista e tra gli ideatori della serie, ha affrontato il progetto con la meticolosità di un esploratore. Ha riguardato lo sceneggiato originale di Sergio Sollima, riletto Emilio Salgari, e si è spinto fino a viaggiare nei luoghi reali dove si svolgono le vicende. I suoi riferimenti cinematografici? “Avatar” di James Cameron e “Mission” di Roland Joffé. Due film che parlano di scontri tra culture, di natura come personaggio vivente, di eroi che attraversano mondi in conflitto. Esattamente il territorio emotivo dove si muove questa nuova versione di Sandokan.
Ma la vera scommessa è stata la scelta linguistica. La serie è girata interamente in inglese perché destinata a un mercato internazionale. La sceneggiatura, scritta prima in italiano, è stata poi tradotta e adattata da due traduttori bilingue e uno sceneggiatore britannico per rendere battute e dialoghi in un inglese autentico. Il risultato è un mosaico di accenti: Sandokan è un principe malese che parla inglese, Yanez un portoghese che fa lo stesso, mentre gli attori britannici si muovono naturalmente nella loro lingua madre. Una babel tower controllata che riflette il caos multiculturale dell’epoca coloniale.
Il casting è stato un processo libero nelle mani di Michelini, con un’unica richiesta dalla produzione: almeno un attore italiano. La scelta è caduta naturalmente su Alessandro Preziosi per il ruolo di Yanez, il fedele compagno d’avventure della Tigre della Malesia. Per il resto, il cast internazionale comprende ottanta attori fissi più duemila figuranti che hanno animato le scene di massa.
E poi ci sono i costumi. Un capitolo a sé stante che merita attenzione. Angelo Poretti e Monica Saracchini hanno iniziato a immaginare come vestire i tigrotti di Mompracem e i pirati un anno prima delle riprese. La filosofia? Creare un Sandokan per i ragazzi di oggi, ispirandosi ai fumetti manga giapponesi e utilizzando una palette cromatica precisa per distinguere i vari schieramenti: verde acido per le guardie malesi, rosso per gli inglesi, blu e bianco per la marina. Sedici sarti hanno lavorato incessantemente per confezionare circa tremila costumi, cucendo non solo tessuti ma anche identità visive.
Il vestito di Sandokan merita un paragrafo dedicato. I suoi colori sono il rosso e il nero, una scelta che si discosta dall’arancione prevalente nello sceneggiato originale. Per lui, principe in esilio, è stato realizzato l’iconico cinturone d’argento, in realtà fabbricato con una resina leggerissima per non appesantire l’attore durante le scene d’azione. La sciabola invece è quella d’epoca del telefilm con Kabir Bedi: il fornitore delle armi, Rancato, è lo stesso utilizzato negli anni Settanta. Un ponte tra passato e presente che si materializza in un oggetto di scena.
Ma il cuore pulsante di questa produzione è il set calabrese. Edmondo Amati, line producer della serie, lo definisce senza mezzi termini un “lavoro titanico”. Per ricostruire il regno della Malesia e l’isola di Labuan sono stati utilizzati 2.500 metri quadri assegnati dalla Calabria Film Commission, con costruzioni interne ed esterne che hanno richiesto il lavoro di tre squadre e cinquanta persone. Amati non esita: “È la costruzione più grande in Italia, anzi oso dire forse anche in Europa per un set”.
Le costruzioni erano modulari, montate e smontate a seconda delle scene. Il bordello rosso di Singapore con la casa della mamma di Sandokan, completo di un ciliegio in fiore con petali di plastica. Il carcere con sbarre di legno, ferro e cartongesso. I giardini e la casa del consolato inglese dove vive il padre di Marianna. Ogni dettaglio, dalle croste di invecchiamento sui chiavistelli delle prigioni alla carta da parati coloniale disegnata appositamente, porta la firma dello scenografo Luca Merlini. I libri sugli scaffali risalgono al periodo storico corretto e sono tutti in inglese. Per i giardini del consolato è stato persino coinvolto un green manager, Federico Mauri, specializzato in allestimenti botanici.
Dalla Calabria il set si è poi trasferito negli studi della Lux Vide a Formello, vicino Roma, dove sono stati realizzati modellini in scala delle navi e dove la nave di Sandokan è stata costruita per intero, a grandezza naturale. Un’imbarcazione che è stata poi ricostruita anche per la mostra immersiva inaugurata al Museo Maxxi di Roma durante la Festa del Cinema, il 17 ottobre 2025, insieme ai costumi originali e agli oggetti di scena.
Le riprese hanno riservato sfide tecniche notevoli. La scena iniziale con il fuoco è stata girata in un palmeto calabrese andato realmente a fuoco per altre cause, trasformando una tragedia ambientale in una location cinematografica. Per il ballo di compleanno di Marianna nella prima puntata è servita un’intera settimana di riprese illuminate solo a lume di candela, un esercizio di pazienza e precisione che ha richiesto il coordinamento millimetrico di luci, movimenti di macchina e performance attoriali.
E poi c’è la colonna sonora, elemento spesso sottovalutato ma cruciale nell’identità di una serie. Le musiche sono firmate dai Calibro 35, gruppo milanese che ha saputo mescolare una parte orchestrale dalle sonorità morriconiane con sezioni più ritmiche per rappresentare il mondo indigeno. Ma la vera sfida era un’altra: rifacere le musiche originali dello sceneggiato di Sergio Sollima. Michelini è stato categorico con la produzione: “Faccio la regia solo se comprate i diritti della colonna sonora originale di Sandokan”. E così è stato. Quel tema iconico che ha accompagnato le gesta di Kabir Bedi ora risuona anche per Can Yaman, creando un filo rosso emotivo tra due generazioni di spettatori.
Il percorso verso la messa in onda è stato lungo e studiato. Dopo un’anticipazione all’Italian Global Series Festival a Rimini e Riccione nell’estate 2025, la serie ha avuto il suo momento di gloria alla Festa del Cinema di Roma. L’anteprima del 17 ottobre è stata accompagnata dall’inaugurazione della mostra al Maxxi, un’esperienza immersiva che ha permesso al pubblico di camminare sulla nave di Sandokan, toccare i costumi, respirare l’atmosfera di un progetto che ambisce a essere più di una semplice fiction televisiva.
Dietro ogni scena di questa “Sandokan” c’è una stratificazione di scelte narrative, estetiche e produttive che rivelano l’ambizione di creare un prodotto globale mantenendo radici italiane profonde. Alessandro Sermoneta spiega che le ispirazioni letterarie vanno oltre Salgari, attingendo ai libri di Rudyard Kipling e alla trilogia “Ibis” di Amitav Ghosh. Da queste fonti è stato sviluppato il tema della natura e della salvezza dell’uomo, trasformando l’avventura esotica in una riflessione più ampia sul rapporto tra civiltà e ambiente.
Il successo di pubblico, con quel 30% di share che ha fatto sobbalzare gli analisti televisivi, conferma che il pubblico italiano era pronto per un ritorno della Tigre della Malesia. Non una nostalgia sterile, ma una rielaborazione che rispetta l’originale pur parlando al presente. Can Yaman, attore turco con un seguito internazionale, incarna un Sandokan che è ponte tra culture, proprio come l’eroe di Salgari era un principe malese che combatteva i colonizzatori britannici parlando la loro stessa lingua.
Ogni elemento di questa produzione racconta di una visione coraggiosa: dalla scelta di girare in inglese alla ricostruzione faraonico del set calabrese, dai tremila costumi ispirati ai manga alla decisione di acquistare i diritti della colonna sonora originale. Sono scelte che potrebbero sembrare rischiose sulla carta, ma che unite formano un mosaico coerente. Un’operazione che dimostra come sia possibile rispettare la tradizione senza rimanerne prigionieri, guardare al mercato globale senza perdere identità, costruire un kolossal televisivo mantenendo cura artigianale per ogni dettaglio.
Il nuovo “Sandokan” è questo: un viaggio che è iniziato cinque anni fa con cento pagine di soggetto e che è arrivato sugli schermi dopo essere passato attraverso palmeti calabresi trasformati in giungle malesiane, studi cinematografici romani dove sono state varate navi di cartapesta e legno, sale di montaggio dove le note dei Calibro 35 si sono fuse con l’eredità di Guido e Maurizio De Angelis. Un viaggio che ha richiesto il lavoro di migliaia di persone, dalla sarta che ha cucito il centesimo costume al green manager che ha piantato ogni albero nei giardini del consolato.

E ora che la Tigre della Malesia è tornata a ruggire sui nostri schermi, possiamo guardare oltre i numeri di share e apprezzare la complessità di un’operazione che ha saputo trasformare un classico della letteratura d’avventura in una serie contemporanea senza tradirne l’anima. Perché in fondo, quello che Salgari raccontava alla fine dell’Ottocento – lo scontro tra mondi diversi, la lotta per la libertà, l’amore impossibile – sono temi che continuano a parlare a ogni generazione. Basta saperli raccontare con gli strumenti del proprio tempo.