Josh Safdie senza Benny Safdie è un po’ come guardare una partita di ping pong dove manca un giocatore.

Non impossibile, ma diverso. E Marty Supreme, il suo nuovo film con Timothée Chalamet, ne è la prova lampante: un’opera che corre frenetica per due ore e mezza verso un finale che, inspiegabilmente, tradisce ogni premessa narrativa costruita con cura millimetrica.

Il film riprende la formula vincente di Diamanti grezzi, trasportandola però negli anni Cinquanta, sostituendo il basket con il ping pong e Adam Sandler con un Chalamet in stato di grazia. Il giovane attore interpreta Marty Mouser, un nome che non è scelto a caso: Mouser, come “topo”, un rodent man che si muove frenetico, rosicchiando tempo, soldi, attenzione. Tutto ciò che può servirgli per arrivare al suo obiettivo: i campionati mondiali di ping pong a Tokyo.

Safdie mantiene al suo fianco lo sceneggiatore Ronald Bronstein, fedele collaboratore di tutti i film precedenti, e insieme costruiscono un personaggio che è pura ambizione senza freni. Marty non vuole fare il direttore del negozio di scarpe dello zio, no. Lui vuole la sua foto sulle scatole dei cereali, vuole battere il silenzioso giapponese che lo ha umiliato a Londra, vuole la gloria. E non esita a calpestare chiunque si trovi tra lui e il suo sogno.

La scelta di Chalamet al posto di Sandler comunica già tutto. Il muso puntuto dell’attore, parte di quella generazione etichettata come “Rodent Man” che tanto affascina il pubblico contemporaneo, funziona perfettamente addosso a questo personaggio. Chalamet riprende la sfacciataggine e la presunzione del suo Dylan di A Complete Unknown, ma le svuota di carisma e mistero. Perché Marty Mouser sarà pure un campione di ping pong, ma la sua arroganza supera di gran lunga le sue effettive capacità.

Il cast che circonda il protagonista è di prim’ordine. Odessa A’zion interpreta Rachel, incinta del figlio di Marty, in una performance che è una vera rivelazione. Tyler, the Creator veste i panni dell’amico tassista nero e pongista, mentre un sorprendente Abel Ferrara porta sullo schermo un mafioso intellegibile e memorabile. E poi c’è Gwyneth Paltrow, ex attrice e moglie di un magnate delle penne, che Marty riesce a portarsi a letto con la sua faccia di bronzo, salvo poi non riuscire a salvarsi dalle umiliazioni cui il marito ricco lo sottoporrà pur di garantirgli un passaggio per Tokyo.

La fotografia in 35mm di Darius Khondji è spettacolare, restituendo gli anni Cinquanta con una texture visiva che abbraccia nostalgia e urgenza contemporaneamente. Safdie dimostra di saper orchestrare il ritmo frenetico che è la sua firma: corse contro il tempo, soffitti di hotel fatiscenti che crollano, redneck razzisti ladri di cani, cazzotti e pallottole che fischiano, rendez vous amorosi e incontri d’affari mandati a monte dall’ego smisurato di Marty.

Il problema è che il film dura troppo. Due ore e mezza che potevano tranquillamente essere meno di due, con alcuni momenti di stanca che rallentano una narrazione che dovrebbe essere invece un treno in corsa. Ma questo non è il vero problema di Marty Supreme.

Il vero problema arriva nel finale. Ed è qui che le cose diventano spinose. Safdie costruisce tutto il film verso un’umiliazione finale che sembra inevitabile, necessaria, giusta. Vediamo Marty calarsi letteralmente le braghe per ottenere ciò che desidera, lo seguiamo mentre accumula debiti morali e materiali, mentre tradisce chiunque gli stia accanto. È un personaggio odioso, e questa è la sua forza narrativa. La partita esibizione in Giappone doveva essere la tabula rasa, la sconfitta definitiva dalla quale ripartire da zero.

E invece no. Ed è qui che Josh Safdie sbaglia il match point più importante della sua carriera. La retorica più stanca del cinema americano si impossessa del finale: la seconda chance ce l’hanno tutti, nessuno la manda veramente in fumo, la redenzione di Marty viene sporcata dalla sua riscossa. Il sistema vince, certo, ma il singolo non si spezza, viaggia a testa alta. Oggi certi finali non li fa più nessuno, la sconfitta non è contemplata.

È un tradimento narrativo che vanifica l’esito di una partita mediamente interessante, a tratti appassionante. Safdie aveva in mano la possibilità di creare un finale memorabile, amaro, necessario. Invece sceglie la via più facile, quella che non ferisce davvero, quella che lascia lo spettatore con un sorriso di circostanza invece che con un pugno nello stomaco.

Marty Supreme funziona per gran parte del suo minutaggio. Il cast è ottimo, la regia sicura, la fotografia sublime. Ma quando conta davvero, quando la palla è sulla riga e basta un colpo secco per chiudere la partita, Safdie la manda fuori. E questo, per un regista che ci aveva abituato a non avere pietà dei suoi personaggi, è una delusione che pesa più di mille difetti tecnici.

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