Tutto grazie alla madre. Esiste un potere taumaturgico nell’amore materno che Ken Scott decide di celebrare con “C’era una volta mia madre”, un film che trasforma una storia vera in racconto semi-favolistico.
La vicenda di Roland Perez, pubblicata nel romanzo autobiografico del 2021 “Ma mère, Dieu et Sylvie Vartan”, è quella di un bambino nato con il piede equino che diventa prima brillante giornalista e poi avvocato di successo. Una santissima trinità composta dal dio degli ebrei magrebini emigrati a Parigi, da una madre coraggio e da Sylvie Vartan, la star della musica francese degli anni Sessanta.
Il film si apre nel 1963, quando Roland, sesto figlio di Esther (interpretata da Leïla Bekhti) e Maklouf (Lionel Dray), viene al mondo con una grave disabilità al piede. Mamma Esther combatte una guerra privata contro il buon senso e la logica medica, detestando i diversi specialisti e l’assistente sociale Madame Fleury, personaggio reso eccezionale dalla interpretazione di Jeanne Balibar. Si affida invece a guaritrici come Madame Vergepoche e, soprattutto, asseconda i gusti musicali del figlio che ascolta incessantemente le canzoni di Sylvie Vartan: “La Maritza”, “Irresistiblemente”, “La plus belle por aller danser”, “Il Y A deux filles en moi”.
Ken Scott confeziona una prima parte molto riuscita, montata con grande rispetto dei tempi della commedia classica e con un notevole rigore nella ricostruzione d’epoca. Lo spettatore entra nel favoloso mondo di Roland sotto la guida dell’onnipresente madre che coinvolge tutta la famiglia nella istruzione del piccolo, che impara a leggere e scrivere con le canzoni della Vartan e diventa, con il tempo, un adolescente brillante dalle letture intellettuali, da Proust a Balzac.
Il momento più importante del film è la prima intervista a Sylvie Vartan, ottima nella parte di sé stessa, che Roland ottiene come giornalista. La prima atipica domanda verte su come l’amore ricevuto durante i primi anni di vita possa formare un carattere molto forte e determinare una modificazione nel tempo percepito. Sylvie Vartan coglie la citazione proustiana ma risponde in maniera sottile che, pur condividendo l’assunto, un affetto così imponente può rivelarsi un handicap, rendendo più deboli sentimentalmente. È una crepa nella favola, un dubbio che si insinua nella narrazione.
Nella seconda parte, questo aspetto psicologico non viene approfondito quanto meriterebbe. Scott preferisce stemperare l’ironia con il dramma, incentrando la narrazione sulla figura di Litzie (Josephine Japy), moglie di Roland, e sull’inevitabile rottura del cordone ombelicale con la madre. Nella costante ossessione di non volere rivelare né il suo handicap né la sua importante infatuazione infantile per la cantante, Roland mostra il suo lato fragile, la sua inadeguatezza rispetto alle figure femminili che lo circondano, mere proiezioni di quella materna con evidente effetto castrante.
Il regista decide di sorvolare sugli aspetti edipici di questo rapporto viscerale e sposa la linea agiografica della autobiografia in un finale che soddisfa le aspettative dello spettatore. Molto toccante risulta il dialogo di Roland con il padre Maklouf che porta alla luce l’altro lato della medaglia: come si vive in assenza di una figura materna precocemente scomparsa. È un momento di equilibrio narrativo che restituisce dignità a una presenza rimasta in ombra.
Commentato da una interessante colonna sonora che mescola le musiche originali di Nicolas Errèra con i successi degli anni Sessanta di Sylvie Vartan, “C’era una volta mia madre” è un racconto sui poteri taumaturgici dell’amore materno osservati dal punto di vista di un bambino che affronta la realtà attraverso un velo di protezione. Il cast, guidato dalla convincente Leïla Bekhti e da Jonathan Cohen nei panni di Roland adulto, costruisce un ritratto familiare credibile e commovente.
Qualcuno ha affermato che Dio ha inventato le madri perché non può essere dappertutto: nel caso di Roland Perez, il manto misericordioso materno lo ha salvato da una vita difficile. Ken Scott, regista canadese noto per “Starbuck” e “Un piano perfetto”, firma un’opera che bilancia leggerezza e profondità emotiva, anche se la scelta di non indagare fino in fondo le zone d’ombra di questo amore totalizzante lascia qualche interrogativo irrisolto. Il film, distribuito in Italia da BIM con i suoi 102 minuti di durata, resta comunque una celebrazione sincera della forza trasformatrice dell’amore familiare, capace di riscrivere destini apparentemente segnati.