C’è una linea sottile che separa l’innovazione tecnologica dalla negazione dell’umanità nel cinema.
E James Cameron, visionario che ha costruito interi mondi digitali su Pandora, sa esattamente dove tracciarla. A pochi giorni dall’arrivo in sala di Avatar: Fuoco e Cenere, previsto per il 17 dicembre, il regista ha rilasciato dichiarazioni destinate a far discutere durante un’intervista a CBS Sunday Morning. La sua posizione sull’intelligenza artificiale generativa? Un paletto inequivocabile che divide il progresso utile dalla sostituzione inutile.
Cameron siede nel consiglio di amministrazione di Stability AI, l’azienda dietro al modello Stable Diffusion. È un sostenitore attivo dell’intelligenza artificiale applicata agli effetti visivi. Ma quando si parla di usare l’IA generativa per creare attori e attrici virtuali dal nulla, la sua risposta è cristallina: “Mi terrorizza“. Non è una frase a effetto. È la dichiarazione di principio di chi ha dedicato decenni alla performance capture, quella tecnologia che cattura ogni sfumatura della recitazione umana per trasferirla su personaggi digitali.
La differenza è fondamentale. La performance capture celebra l’attore, ne amplifica il talento attraverso la tecnologia. L’IA generativa lo elimina, sostituendolo con algoritmi addestrati su tutto ciò che è stato fatto prima. “È l’opposto di quello che stiamo facendo noi“, spiega Cameron con una passione che traspare dalle parole. “Una volta che distilli quello che stiamo facendo, è una celebrazione di quei momenti tra attore e regista, e di quei momenti tra attori e attrici tra di loro. È una celebrazione, come la chiamo io, della santità della performance.”
Non vuole che un computer faccia quello di cui va orgoglioso: il suo lavoro con il cast. Ama lavorare con attori e attrici, e l’idea che un prompt testuale possa generare una performance completa rappresenta per lui la negazione stessa dell’arte cinematografica. È una posizione che lo colloca a metà strada tra gli apocalittici come Guillermo del Toro e gli integrati come George Miller. Cameron non rifiuta la tecnologia, ma ne esige un utilizzo consapevole e rispettoso dell’elemento umano.
Eppure, la sua presenza in Stability AI non è una contraddizione. È, piuttosto, un modo per controllare dall’interno una rivoluzione che non si può fermare. L’intelligenza artificiale, secondo Cameron, ha un ruolo preciso e legittimo: rendere gli effetti visivi più economici. In un mercato cinematografico contratto, dove gli studios investono solo su marchi sicuri e franchise consolidati, l’IA può abbattere i costi della fantascienza e del fantastico, generi che rischiano l’estinzione proprio per le loro spese proibitive.
“Un film come il primo Avatar non verrebbe mai fatto in questo ambiente“, ammette con lucidità. “Era un’IP nuova, nessuno l’aveva mai sentita.” L’intelligenza artificiale potrebbe democratizzare la produzione di mondi immaginari, permettendo a nuove storie di vedere la luce. Ma c’è un limite invalicabile: l’IA generativa non può creare qualqualcosa di mai visto prima. I modelli si allenano su tutto ciò che è già stato fatto, restituendo una media dell’esperienza artistica umana. Un frullatore che ti lascia senza fiato con i suoi giochi di prestigio, ma che non potrà mai regalarti l’esclusiva esperienza di vita di uno sceneggiatore, le sue fissazioni, le idiosincrasie di un particolare attore.
L’IA ha anche costretto Cameron e il suo team ad alzare l’asticella, a essere molto disciplinati, a pensare fuori dagli schemi. È uno strumento che sfida, non che sostituisce. Avatar: Fuoco e Cenere sarà l’ennesima dimostrazione di come la tecnologia più avanzata possa servire la visione umana senza cancellarla. Ogni Na’vi che vedremo sullo schermo sarà abitato dall’anima di un attore in carne e ossa, ogni emozione sarà stata vissuta prima di essere catturata e amplificata.
In un’epoca in cui l’industria dell’intrattenimento dibatte ferocemente sul ruolo dell’intelligenza artificiale, Cameron offre una bussola morale. La tecnologia deve liberare la creatività, non rimpiazzarla. Deve abbattere i costi tecnici, non quelli umani. Deve servire la storia, non scriverla al posto nostro. “Non voglio rimpiazzarlo”, conclude parlando del suo lavoro con il cast. È una dichiarazione d’amore per il cinema inteso come arte collaborativa, dove la macchina è uno strumento nelle mani dell’artista, non il suo sostituto.
Mentre il dibattito globale sull’IA generativa si fa sempre più acceso, con contratti sindacali che tentano di proteggere i lavoratori dello spettacolo e registi divisi tra entusiasmo e preoccupazione, la posizione di Cameron emerge come una delle più equilibrate e pragmatiche. Non è un luddista che rifiuta il progresso. Non è nemmeno un tecno-ottimista cieco di fronte ai rischi. È un artigiano digitale che conosce il valore insostituibile della performance umana, e che usa la sua influenza per garantire che la rivoluzione tecnologica non diventi una sostituzione dell’umanità che rende il cinema degno di essere raccontato.