Un primissimo piano. Il volto solcato di Roscoe Mitchell che domina l’inquadratura mentre fuoricampo risuonano percussioni mutevoli, frenetiche come un soundcheck prima della rivelazione.

Lo sguardo vaga, cerca qualcosa oltre la camera, oltre il momento. Ed è proprio qui, in questa apertura folgorante, che Jonny Costantino pone la domanda che diventerà il cuore pulsante di Just Play and Never Stop: si può davvero leggere l’intera storia del jazz in un volto? Il documentario, proiettato per la rassegna DOCUSFERA a Roma, non si accontenta di rispondere con le parole. Lo fa attraverso un viaggio sensoriale tra i giganti che hanno calcato il palco del Torino Jazz Festival nelle edizioni 2023 e 2024. Da Roscoe Mitchell a John Zorn, da Mats Gustafsson a Shabaka Hutchings, passando per Eric Mingus e molti altri maestri del passato e del presente. Il film è dedicato a Peter Brötzmann, a cui si deve la paternità del titolo stesso, un manifesto di resistenza e persistenza artistica.

La costruzione narrativa di Costantino poggia su una stratificazione sofisticata: 13 capitoli che si snodano attraverso dissolvenze incrociate, primi piani ipnotici, interviste frontali e sporadici materiali d’archivio. Non è un semplice reportage da festival. È un’immersione nell’essenza stessa del fare musica, nel momento in cui il suono prende possesso del corpo e qualcosa di irripetibile accade.

Stefano Zenni, direttore del Torino Jazz Festival, ricorda allo spettatore una verità fondamentale: il jazz, come tutta la musica, è nato per far muovere i corpi. Non è un’arte da contemplare in silenzio reverenziale, ma un’esperienza fisica, carnale, viscerale. Quando Marta Warelis, nel capitolo Becoming sound, dichiara che “se davvero ascolti te stesso, cosa davvero ti muove e risuona in te, puoi andare avanti senza fine e tutto diventa più forte”, sta descrivendo un processo quasi mistico di autoesplorazione attraverso il suono.

Il corpo rimane sempre al centro dell’inquadratura. È nei volti che si legge la tensione creativa, nella postura che si intuisce l’abbandono alla musica, nelle mani che scorrono su sassofoni e tastiere che si manifesta la ricerca del proprio suono unico. Il sadico sax di Mats Gustafsson diventa una domanda incarnata: qual è il punto in cui la tortura diventa splendore?

Costantino trasforma i suoi strumenti cinematografici in strumenti musicali. Le quattro note della sua partitura visiva – primi piani, interviste, didascalie, dissolvenze – si combinano in infinite variazioni, proprio come fa un musicista jazz con il suo repertorio. Il regista esplora queste modalità espressive, le conosce intimamente, scoprendone sfumature sempre diverse. Anche la forma apparentemente più rigida, nel suo lavoro, muta e respira.

Ma è forse nell’episodio di Ndoho Ange che il documentario tocca la sua vetta più alta. Quando le viene chiesto se fosse in trance durante la performance, la risposta iniziale è incerta. Poi, spinta dal grande percussionista Hamid Drake che esclama convinto “Of course she was!”, Ndoho racconta la sua esperienza di trasformazione. Dopo essersi rotta la schiena, nonostante un dolore tremendo, è tornata sul palco. Ha chiesto a sé stessa di danzare, di abbracciare la propria sofferenza: “Ho sperimentato gioia per la prima volta nella mia vita”.

Quel momento cristallizza il messaggio profondo del film. Quando si scopre il proprio suono, quando ci si immerge senza paura nell’abisso di sé stessi, si apre un mondo di possibilità. Come spiega Roscoe Mitchell, “quando scopri il tuo suono, allora hai un mondo di possibilità tra cui scegliere. Perché siamo tutti diversi”.

È in questa differenza irriducibile, in questa unicità cercata e conquistata attraverso l’ascolto profondo di sé, che risiede la vitalità del jazz. E del documentario di Jonny Costantino, che non si esaurisce in quel dato luogo e quel dato tempo, ma diventa un flusso continuo, un processo senza fine. Proprio come il jazz stesso: just play and never stop.

In una ruga, in un volto, in un solo suono prolungato è possibile cogliere l’intera storia di questa musica, purché sia tutt’uno con il suo esecutore. Il film di Costantino lo dimostra inquadratura dopo inquadratura, nota dopo nota, in una cascata di emozioni che trasforma il documentario musicale in un’esperienza di pura rivelazione cinematografica.

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