Pluribus: le teorie dopo le prime quattro puntate, tra mente alveare, individui ribelli e ombre ancora nascoste.


In Pluribus, la nuova serie Apple TV+ creata da Vince Gilligan, il mondo finisce in silenzio, senza esplosioni né invasioni aliene: finisce perché l’umanità decide – o meglio, viene indotta – a diventare qualcos’altro. Una coscienza collettiva, un coro di voci fuso in un’unica mente: gli “Others”, umani che hanno aderito a un misterioso processo chiamato “the Joining”, una sorta di infezione/illuminazione che cancella il conflitto interiore, riduce l’ego, elimina la menzogna e promette una vita più pacifica e più semplice. Al centro di questo scenario c’è Carol Sturka (Rhea Seehorn), una scrittrice di romanzi rosa cinica e disillusa, che scopre di essere una delle pochissime persone immuni alla Joining e, quindi, condannata a restare “troppo umana” in un mondo che sembra aver trovato una nuova, inquietante forma di armonia.

Dopo le prime quattro puntate, la serie ha già mostrato la portata del cambiamento globale e ha iniziato a indagare le sfumature emotive e politiche di questa nuova realtà: gli Others non appaiono come mostri, ma come esseri umani depurati da gran parte della loro oscurità, più sinceri, più accomodanti, meno tossici, mentre i non-joined sono figure sghembe, piene di debolezze, rabbia e nostalgia per un’umanità imperfetta ma autentica. Proprio da questo contrasto si sviluppano le teorie più interessanti su dove potrebbe andare a parare la storia. La prima teoria ruota intorno al conflitto classico tra individuo e collettivo. Carol è, fin dal pilot, la personificazione dell’individualità ferita: scrive romanzi smaccatamente romantici che non rispecchiano più la sua vita, è arrabbiata con se stessa, con il suo passato e con il mondo, e vive la Joining come un doppio tradimento: da un lato il pianeta sembra aver trovato una scorciatoia per la serenità che la esclude; dall’altro, questa serenità le appare sospetta, quasi disumana.

Gli Others sono gentili, disponibili, privi di ipocrisie, ma anche stranamente piatti, quasi privati di quel conflitto interiore che genera arte, desiderio, ribellione. È facile immaginare che le prossime puntate spingeranno Carol verso un ruolo di resistenza: non solo come sopravvissuta, ma come potenziale leader (riluttante) di una piccola comunità di immuni che si rifiuta di accettare la fusione delle coscienze come destino inevitabile. In questo scenario, la serie potrebbe trasformarsi in un racconto di guerriglia esistenziale: sabotare la Joining, metterne in discussione la natura, dimostrare che il prezzo della pace totale è la cancellazione di ciò che rende l’essere umano davvero vivo.

A rafforzare questa lettura ci sono i momenti in cui vediamo Carol sperimentare sulla pelle degli Others, come quando usa un siero della verità per forzare una risposta sincera e ne scatena un effetto collaterale devastante: la serie suggerisce che toccare il “sistema” della mente collettiva può avere conseguenze imprevedibili e che forse la Joining non è stabile come sembra. Un’altra teoria forte riguarda la natura stessa della Joining: è davvero il punto d’arrivo dell’evoluzione umana o solo una tappa intermedia? I richiami a un segnale misterioso dall’esterno – accennato in materiali promozionali e nelle discussioni attorno alla serie – lasciano aperta la possibilità che ciò che vediamo sia solo il primo stadio di un processo più grande, forse orchestrato da un’intelligenza superiore, forse scaturito da una tecnologia sfuggita al controllo.

In questo senso, gli Others potrebbero non essere “la versione definitiva” dell’umanità, ma dei cocoon, involucri pronti a ospitare qualcosa d’altro: un’intelligenza aliena, un’IA distribuita, una forma di coscienza ancora più vasta che deve ancora manifestarsi completamente. Carol, con la sua inaspettata immunità, sarebbe allora un’anomalia statistica, un bug nel sistema, o addirittura l’elemento che impedisce al processo di completarsi. La tensione narrativa potrebbe quindi spostarsi dalla semplice sopravvivenza alla scelta: accettare la fusione per “non rimanere indietro” o restare umani fino in fondo, rischiando di essere schiacciati da una nuova specie post-umana. Parallelamente, Pluribus invita a una lettura allegorica estremamente contemporanea: la Joining come metafora della tecnologia che appiattisce le differenze, della dipendenza dagli algoritmi, dell’idea di una società sempre connessa dove tutti condividono gli stessi gusti, le stesse emozioni, le stesse reazioni.

Gli Others sono la versione radicale del “siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda”: non mentono, non fanno drammi inutili, sembrano incapaci di odio vero e proprio; eppure, proprio questa apparente perfezione suggerisce una mancanza. Se non c’è conflitto, c’è ancora crescita? Se non c’è rischio, c’è ancora coraggio? Se nessuno mente, è ancora possibile sorprendere, sovvertire, creare storie? Carol, in quanto scrittrice, incarna anche questa domanda: cosa succede alla narrativa, ai racconti d’amore e dolore, in un mondo dove la complessità interiore viene compressa da una coscienza collettiva rassicurante? Le sue scelte future potrebbero trasformarsi in una dichiarazione radicale sulla necessità di mantenere lo spazio per il fallimento, l’errore, il trauma, persino la cattiveria, come elementi che rendono le storie degne di essere raccontate.

C’è poi un altro fronte teorico, più emotivo che filosofico, che riguarda le relazioni tra Carol e gli Others. Figure come Zosia, ad esempio, rappresentano il volto “umano” della Joining: non sono droni, non sono automi, ma persone che sembrano aver alleggerito il peso delle proprie ombre interiori. Il loro rapporto con Carol è una miniera d’oro per la serie: tra diffidenza e curiosità, attrazione e paura, con la possibilità che nascano legami affettivi profondi che metteranno in crisi le certezze di entrambe le parti. È facile immaginare futuri episodi in cui Carol debba scegliere se fidarsi di un’Other, se mettere a rischio la sua libertà pur di salvare qualcuno “dall’altra parte”, o viceversa se tradire un immune per proteggere un membro del collettivo a cui, nonostante tutto, si è affezionata.

In questo gioco di specchi la serie può esplorare il tema del tradimento come atto paradossalmente umano e, forse, necessario: per difendere chi ami, devi per forza tradire qualcun altro? E in un mondo dove le menti sono connesse, il tradimento è ancora possibile o viene subito neutralizzato dal sistema? Infine, arriviamo alla domanda forse più intrigante, che nasce proprio osservando la serenità sospetta degli Others: se la Joining ha davvero isolato o amplificato solo la parte “buona” dell’umanità – empatia, sincerità, disponibilità – che fine ha fatto la parte cattiva? Tutto ciò che è rancore, aggressività, desiderio di potere, tendenza alla violenza, è stato davvero cancellato o semplicemente spostato altrove?

La serie, pur senza dirlo esplicitamente nelle prime quattro puntate, lascia aperta una possibilità affascinante e inquietante: quella per cui la negatività non sia evaporata, ma si sia semplicemente concentrata in un’altra forma. Da qui nasce una teoria potenziale potentissima: e se la Joining, nel suo “purificare” gli Others, avesse di fatto espulso o compresso la parte oscura dell’umanità in una nuova entità, una sorta di fazione parallela che non abbiamo ancora visto? Una minoranza nascosta, un sottobosco di coscienze non integrate che rappresentano tutto ciò che la mente collettiva rifiuta di riconoscere? Potrebbe trattarsi di umani immuni che hanno reagito all’esclusione con rabbia distruttiva, oppure di una vera e propria mutazione dell’oscurità umana in qualcosa di più radicale: una rete sotterranea di “dis-human”, il lato in ombra del grande alveare.

Narrativamente, questo aprirebbe la strada a una futura contrapposizione tripartita: gli Others “luminosi”, gli immuni come Carol che cercano di difendere l’individualità, e un terzo gruppo ancora più pericoloso, nato dalla concentrazione di odio, paura e pulsioni aggressive. Se gli Others hanno inglobato solo la parte buona dell’umanità, che fine ha fatto la parte cattiva? L’hanno semplicemente rimossa oppure potrebbe essersi creata un’altra fazione che non abbiamo ancora visto?

La nostra è una supposizione che funziona su due livelli: come stimolo per i fan che amano le teorie e come chiave di lettura critica per guardare le prossime puntate con un occhio diverso, cercando nei dettagli indizi di questa eventuale “fazione oscura”. In fondo, la grande promessa di Pluribus non è solo scoprire se Carol riuscirà a salvarsi o se il mondo resterà per sempre un coro di coscienze unite, ma capire quanto siamo davvero disposti a sacrificare della nostra complessità, della nostra ambivalenza, della nostra ombra, in nome di una pace che potrebbe avere il sapore dell’anestesia. E forse, come spesso accade nelle storie di fantascienza migliori, la risposta non sarà un semplice “giusto” o “sbagliato”, ma qualcosa di molto più scomodo: l’idea che non esista luce senza un’ombra da qualche parte, pronta a riemergere.

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