Il settore cineaudiovisivo italiano sta attraversando uno dei momenti più critici degli ultimi anni, e l’allarme lanciato da Alessandro Usai, presidente di ANICA, fotografa con precisione un rischio che potrebbe trasformarsi in un terremoto industriale: il taglio dei fondi pubblici destinati alle produzioni, al tax credit e al Fondo Cinema e Audiovisivo.
Una manovra che, secondo Usai, non solo comprometterebbe la stabilità delle imprese del settore, ma metterebbe concretamente a repentaglio decine di migliaia di posti di lavoro, causando un effetto domino lungo tutta la filiera. Il nodo centrale non riguarda soltanto la quantità delle risorse, ma soprattutto la loro prevedibilità: produzioni cinematografiche e seriali richiedono investimenti multimilionari e un’architettura finanziaria stabile. Basta che venga meno anche un semplice 10% di copertura economica per far saltare un progetto. È quanto sottolinea Usai, ricordando che l’Italia ha costruito negli ultimi anni un ecosistema competitivo proprio grazie agli incentivi fiscali, all’attrattività dei territori e a una normativa che permetteva di programmare.
L’abolizione dello “splafonamento” – cioè la possibilità per le produzioni di compensare le agevolazioni in modo flessibile – rischia di essere, nelle sue parole, un vero “colpo letale”: senza quella valvola di sicurezza, molte imprese non potranno più pianificare a medio termine, e gli investitori internazionali potrebbero spostarsi verso territori più affidabili come Spagna, Ungheria, Irlanda o Canada. Il taglio complessivo previsto per il Fondo Cinema negli anni 2026 e 2027 – rispettivamente circa 190 e 240 milioni in meno – non rappresenta per Usai un semplice ridimensionamento, ma una frattura strutturale: “Le risorse che vengono tolte non sono extra, non sono un lusso: sono già parte dei budget delle imprese”, avverte, ricordando che l’intera filiera si regge su un equilibrio delicatissimo.
E quando l’equilibrio si spezza, le conseguenze non ricadono solo sulle case di produzione, ma su migliaia di tecnici, scenografi, elettricisti, truccatori, autori, costumisti, professionisti del suono, driver, lavoratori dell’indotto come fornitori, noleggiatori di attrezzature, location manager, strutture ricettive. Il cinema è un ecosistema, non un settore isolato. Per questo l’eventualità di un drastico taglio dei fondi pubblici avrebbe effetti sistemici: meno produzioni significherebbe meno giornate di lavoro, meno investimenti, meno attrattività per l’estero, meno “set tourism”, meno innovazione culturale. L’Italia rischierebbe di tornare indietro di dieci anni proprio nel momento in cui stava consolidando una presenza forte nelle produzioni internazionali, come dimostrano i numeri dell’ultimo decennio.
Usai chiede un confronto immediato con il Governo, ricordando che la competitività dell’audiovisivo non è un capriccio delle imprese ma una questione strategica: i contenuti italiani sono una vetrina internazionale, un elemento di soft power, un volano economico per territori e professionisti. La richiesta non è di elargire nuovi bonus, ma di garantire stabilità a strumenti già esistenti, strumenti che hanno dimostrato di funzionare e di generare valore. Se l’Italia diventa un paese dove le regole cambiano improvvisamente, il rischio è che i produttori – italiani e soprattutto stranieri – scelgano semplicemente di girare altrove.
E quando un flusso produttivo si sposta, difficilmente torna indietro. L’appello di Usai è quindi anche un messaggio politico: investire nel cinema significa investire in occupazione, tecnologia, cultura, identità, competitività del Paese. Significa riconoscere che un set non è solo un luogo dove si gira un film, ma un centro temporaneo di economia reale. Se la filiera si ferma, non perde solo l’industria: perde l’Italia. È per questo che l’intero settore attende una risposta rapida, chiara e strutturale. Perché ogni giorno di incertezza rischia di essere un giorno in meno di produzione, e un passo in più verso l’irrilevanza internazionale. E un Paese che smette di investire nelle sue storie finisce, inevitabilmente, per perdere anche parte della sua voce.