Come si racconta la periferia napoletana senza cadere nella trappola del crimine, della violenza esibita, del moralismo edificante?
È la sfida che Nunzia De Stefano accetta con Malavia, la sua opera seconda che arriva a sei anni dall’esordio con Nevia. Un immaginario saturo, quello delle storie napoletane, dove ogni racconto sembra inseguire l’altro in un déjà vu continuo. Eppure la regista trova uno spazio, una voce, una prospettiva diversa: quella di chi sceglie di stare all’altezza degli adolescenti, senza giudicare, senza semplificare.
Al centro c’è Sasà, interpretato con disarmante autenticità da Mattia Francesco Cozzolino. Tredicenne con un talento naturale per l’hip hop, vive con la madre in condizioni difficili, il padre scomparso ancor prima che nascesse. Le sue giornate scorrono tra cannette, giri senza meta e la compagnia inseparabile di due amici che rappresentano altre forme di diversità: Nicolas, capoverdiano di seconda generazione interpretato da Junior Rodriguez, e Cira, che porta nel corpo un disagio profondo e trova in Francesca Gentile un’interprete straordinaria. Tre ragazzi ai margini, tre esistenze che si tengono a galla nell’affetto reciproco.
La musica per Sasà non è un hobby: è fame, ossessione, possibilità di riscatto. Quando incontra Yodi, rapper della old school partenopea che gestisce un negozio di dischi, il ragazzo trova una figura di riferimento capace di indicargli una strada. Giuseppe Sica, in arte PeppOh, porta sullo schermo l’autorevolezza di chi ha vissuto davvero quella scena musicale, rendendo il personaggio credibile e necessario. Il consiglio che Yodi dà a Sasà è semplice quanto profondo: scrivi un pezzo per tua madre, trova la tua storia, quella che solo tu puoi raccontare.
Ma Sasà è anche un ragazzo fragile, geloso della madre fino alla tossicità, affascinato dalle scorciatoie del successo facile. La narrazione di De Stefano si mantiene lineare, quasi scolastica nello svolgimento, eppure riesce a evitare il didascalismo gratuito grazie a una sincerità emotiva che attraversa ogni scena. Non ci sono sorprese narrative eclatanti, i personaggi fanno esattamente ciò che ci aspettiamo, ma l’empatia costruita è genuina, radicata in una conoscenza profonda del territorio e delle sue dinamiche.
Il film si muove nel solco di una tradizione cinematografica che da Antonio Capuano in poi ha fatto della Napoli adolescenziale un territorio d’indagine privilegiato. Non a caso, echeggia quella domanda fondamentale posta in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino: “A tiene ‘na cos’ a raccuntà?”. È proprio questo il cuore pulsante di Malavia, un invito a trovare la propria voce attraverso l’esperienza, il dolore, la crescita. Il talento non basta se non viene alimentato dalla vita vissuta, dalle cadute dalle quali ci si rialza.
La regista si pone come una sorella maggiore che osserva senza giudicare, che accompagna senza forzare. Nei momenti migliori, il film trova il suo ritmo nel beat dell’hip hop, nella libertà espressiva delle battle freestyle, nella compassione che si nasconde sotto il cappuccio della felpa. L’home movie che scorre sui titoli di coda diventa una dichiarazione d’intenti: questo è reale trasfigurato, vita che diventa cinema senza tradire la propria essenza.
Prodotto da Matteo Garrone e presentato alla ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Freestyle, il film porta nel titolo stesso il suo messaggio di speranza. Malavia è anche il nome della canzone che chiude la storia, sintesi perfetta di un percorso di crescita che passa attraverso la musica come forma di sublimazione artistica della vita di strada, come affrancamento da un destino criminale che sembrava segnato.
Non è un film che stupisce, non rivoluziona il genere del coming of age napoletano. Ma nell’epoca della saturazione narrativa, della necessità a tutti i costi di innovare, c’è qualcosa di prezioso in una storia raccontata con questa onestà, con questa adesione viscerale ai suoi personaggi. De Stefano dimostra che si può ancora dire qualcosa di autentico su quel mondo, se lo si fa con rispetto, sensibilità e la consapevolezza che ogni ragazzo ha una storia da raccontare. Basta avere il coraggio di ascoltarla.
