Nel vasto e imprevedibile universo delle serie TV, dove l’attesa per ogni nuova stagione è un rito quasi sacro, l’annuncio di un cambiamento strutturale può scuotere le fondamenta delle aspettative.
È questo il caso di, Alice in Borderland stagione 3 che, con i suoi sorprendenti sei episodi , ha lasciato molti fan a interrogarsi. Dopo due stagioni da otto capitoli ciascuna, questa riduzione del runtime più breve ha sollevato un quesito fondamentale: è stata una scelta azzardata o una mossa geniale capace di ridefinire il ritmo e l’intensità della narrazione?
La serie live-action giapponese di Netflix, acclamata per la sua tensione mozzafiato e i suoi enigmi letali, si è sempre distinta per la capacità di tenere incollati gli spettatori allo schermo. Con la terza iterazione, gli showrunner hanno intrapreso un percorso audace, spingendosi oltre i confini del manga originale per tessere una storia completamente nuova. In questo scenario, Arisu e Usagi ritornano nelle enigmatiche Borderlands, pronti ad affrontare una nuova serie di giochi di sopravvivenza tanto innovativi quanto spietati. Eppure, la sensazione di un epilogo affrettato o di una narrazione compressa aleggiava nell’aria.
Ma cosa ha spinto questa decisione creativa così inusuale? Una delle ragioni principali risiede nella drastica riduzione del cast principale. Laddove le stagioni precedenti esploravano un’ampia galleria di personaggi, la terza si concentra quasi esclusivamente sul duo centrale, Arisu e Usagi. Questo focus mirato ha permesso alla trama di muoversi a una velocità vertiginosa, immergendo gli spettatori nell’azione e nel dramma fin dalle prime battute, senza i tempi morti dedicati all’introduzione e allo sviluppo di figure secondarie. È un ritmo incalzante, quasi cinematografico, che non concede tregua.
Le prime due stagioni di Alice in Borderland erano intrise di misteri profondi e domande esistenziali: perché le Borderlands esistono? Chi sono i Cittadini e quale potere detengono? Con il finale della seconda stagione, la maggior parte di questi interrogativi aveva trovato una risposta soddisfacente, lasciando alla terza un unico, grande enigma da svelare: l’identità del Joker . Con un numero minore di nodi da sciogliere e meno retroscena da esplorare, la narrazione ha potuto concentrarsi su questa singola, potente linea di conflitto, rendendo la storia più compatta ma non meno avvincente.
E il risultato? Sorprendentemente, il minor numero di episodi ha giocato a favore della serie. Molti personaggi principali, in particolare Arisu, hanno ricevuto una chiusura narrativa pienamente soddisfacente. La storia di Usagi, ancora intrisa del dolore per la perdita del padre, è stata abilmente utilizzata come motore emotivo, fornendo una profondità inaspettata. Sebbene il ritorno di Usagi nelle Borderlands abbia giustificato il rientro di Arisu, non c’era una necessità stringente di coinvolgere l’intero ensemble delle stagioni precedenti. Questo ha permesso di mantenere la narrazione focalizzata e intensa.
Anche se alcuni volti noti, come il carismatico Chishiya interpretato da Nijiro Murakami, hanno fatto la loro comparsa in brevi ma significativi cameo nel finale, la scelta di concentrarsi su due soli protagonisti ha dimostrato la sua efficacia. Alice in Borderland 3 non ha avuto bisogno di dilungarsi per essere incisiva; al contrario, la sua brevità si è trasformata in un punto di forza, permettendo una narrazione più densa, ritmata e diretta. In un panorama televisivo spesso incline a estendere le trame oltre il necessario, questa stagione ci ricorda che, a volte, la vera maestria risiede nella capacità di raccontare una grande storia con meno parole, ma con un impatto maggiore.