Nel vasto e mutevole panorama dell’intrattenimento, poche voci risuonano con l’eco e l’autorità dei Duffer Brothers, i visionari dietro il fenomeno globale di Stranger Things.

Matt e Ross Duffer non sono semplici showrunner; sono architetti di mondi, tessitori di narrazioni che hanno ridefinito il concetto di serie televisiva nell’era dello streaming. Eppure, la loro recente transizione da Netflix a Paramount Pictures ha svelato una filosofia produttiva che potrebbe sorprendere molti, una visione che si discosta nettamente dalle aspettative di un pubblico sempre più affamato di contenuti.

Durante un recente summit di Variety, Matt Duffer ha gettato luce su una preferenza che, per molti, suona quasi eretica: il loro disinteresse per le stagioni annuali delle serie TV. “Mi stanco a guardare stagioni da 20 episodi,” ha confessato. “Non siamo cresciuti interessati a nulla di tutto questo. Guardavamo solo film. È strano che siamo finiti in TV, perché avevamo quasi zero interesse per la televisione.” Questa dichiarazione non è solo un aneddoto personale, ma la chiave di volta per comprendere la loro intera strategia narrativa. Per i Duffer, un rilascio annuale porta a un **”ritorno decrescente”**, una diluizione della qualità e dell’impatto emotivo che rende un’opera memorabile.

La loro preferenza va chiaramente verso quelle che sono ormai definite “event series”: produzioni con un numero limitato di episodi, una trama ben definita e, soprattutto, ampi intervalli tra una stagione e l’altra. Stranger Things stessa ne è l’esempio più lampante: un’epopea sci-fi-horror che, pur avendo conquistato un posto indelebile nella cultura pop, ha sempre richiesto ai suoi fan una pazienza quasi monacale. Questo modello, che contrasta nettamente con lo schema tradizionale della TV di rete – stagioni da 22-24 episodi ogni anno – sarà il fulcro dei loro futuri progetti con Paramount Pictures, che includeranno film per il cinema e serie TV da “otto a dieci episodi”, con significative pause produttive.

Ma questa filosofia, sebbene abbia generato capolavori, non è priva di critiche. L’idea che un rilascio annuale possa portare a una perdita di interesse da parte del pubblico è un punto di vista che molti, incluso l’autore della fonte originale, non condividono. In un’epoca di sovraccarico di contenuti, dove ogni giorno nascono nuove serie e piattaforme, mantenere il pubblico “agganciato” con un flusso costante di episodi è visto come una strategia vincente. Le pause di due o tre anni tra le stagioni, per quanto giustificate dalla complessità produttiva, possono far sì che i telespettatori perdano il filo, dimentichino dettagli cruciali o, peggio, si rivolgano ad altre narrazioni più immediate.

È un dibattito affascinante che tocca il cuore dell’industria televisiva: qualità artistica contro sostenibilità dell’engagement. Se da un lato l’approccio dei Duffer garantisce un prodotto curatissimo, quasi cinematografico, dall’altro si scontra con la logica del consumo rapido e della gratificazione istantanea che lo streaming ha alimentato. Certo, Stranger Things è un’eccezione, un fenomeno che ha saputo trascendere le dinamiche di mercato, mantenendo un’enorme popolarità nonostante le lunghe attese. Ma quante altre serie possono permettersi un lusso simile senza rischiare l’oblio?

Mentre la tanto attesa Stagione 5 di Stranger Things si avvicina alla sua conclusione, con la promessa di un finale epico diviso in più parti, l’eredità dei Duffer Brothers è già scolpita nella storia della televisione. Che si tratti di nuove produzioni per Netflix, come la serie soprannaturale The Boroughs o l’horror Something Very Bad Is Going To Happen, o dei loro ambiziosi progetti con Paramount, una cosa è certa: la loro visione continuerà a sfidare le convenzioni, spingendo i confini di ciò che una serie TV può essere. Resta da vedere se il pubblico, e l’industria, saranno disposti a rallentare il passo per godere appieno di queste “event series”, o se la velocità del “fast-food” televisivo prevarrà.

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