Un uomo in manette, un volto televisivo amato da milioni di italiani trasformato improvvisamente in colpevole: l’arresto di Enzo Tortora, il 17 giugno 1983, è diventato l’icona di un incubo collettivo. Con Portobello, presentata alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia e prodotta da HBO e Sky, Marco Bellocchio riapre quella ferita e la rende viva, presente, quasi tattile. Non nostalgia, non santini: ma un’epopea civile che intreccia legal drama, mafia movie e tragedia politica, riportando lo spettatore dentro l’Italia che incoronava i suoi eroi per poi divorarli.

Al centro c’è Fabrizio Gifuni, che veste i panni di Tortora con una recitazione fatta di sottrazione: voce trattenuta, corpo che resiste al clamore, occhi che registrano l’assurdo con dignità silenziosa. Di fronte a lui, Lino Musella è un Giovanni Pandico disturbato e ossessivo, febbrile nella parola e nel gesto, capace di trasformare ammirazione in rancore, fino a scatenare l’apocalisse giudiziaria. Tra i due si gioca il cuore della serie: misura contro eccesso, verità contro menzogna, resistenza contro manipolazione.

Attorno, un cast corale – Alessandro Preziosi, Barbora Bobulova, Romana Maggiora Vergano, Massimiliano Rossi, Carlotta Gamba, Fausto Russo Alesi – costruisce un mosaico di volti e destini, mentre la fotografia di Francesco Di Giacomo alterna i riflettori abbaglianti dello studio televisivo alle ombre claustrofobiche delle celle, trasformando Portobello in un rito laico e crudele. Bellocchio lavora per simboli e suggestioni: il pappagallo fuggito come presagio, la rasatura dei capelli come rito di annientamento, i bicchieri sbattuti sulle sbarre a scandire l’assurdo. Ogni immagine è cinema che si fa memoria.

Portobello non è un “true crime” compiaciuto, ma un viaggio allucinato nell’Italia degli anni ’80: un Paese che si specchiava nella televisione e non riconosceva il proprio volto, un sistema giudiziario che scambiava zelo per giustizia. Bellocchio firma un’opera che non lascia indifferenti, un atto di memoria che diventa anche monito.

E quando lo schermo si chiude tra studio televisivo e sbarre di ferro, resta una domanda che ci attraversa come un brivido: quanto siamo cambiati, davvero, da quel 1983?

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