Quarantacinque anni fa, The Blues Brothers di John Landis irrompeva nei cinema come un uragano in giacca e cravatta, scatenando sul grande schermo un’esplosione di ritmo, comicità e pura follia cinematografica.
Non era solo una commedia musicale: era una missione. Un’odissea a tutto volume, in cui due fratelli vestiti di nero e spinti da una fede incrollabile nel potere del soul sfidavano l’intero mondo armati solo di microfono, Ray-Ban e una vecchia Dodge.
Landis, reduce dal successo travolgente di Animal House, ricevette carta bianca e rispose con una dichiarazione d’amore per la musica nera e per il caos orchestrato. Ma The Blues Brothers non è solo un inno alle sbandate e agli inseguimenti: è uno spettacolo senza compromessi, una celebrazione del cinema come rito collettivo, capace di far ridere, cantare e ballare anche lo spettatore più rigido.
Il cameo di Steven Spielberg nei panni del funzionario fiscale è molto più di un inside joke tra registi: è il simbolo del passaggio del testimone, l’inchino rispettoso tra due giganti, ma anche il segnale che Landis non si accontentava di replicare il successo degli altri. Lui voleva fare di più. E così lo fece. Mentre Jake ed Elwood si fanno largo verso il Daley Center di Chicago, inseguiti da una surreale parata di forze dell’ordine, militari, nazisti e cowboy incazzati, oltre 100 auto vengono distrutte in una delle scene più spettacolari e iconiche della storia del cinema. Non una corsa. Una marcia trionfale verso l’immortalità.
Certo, la produzione fu tutto tranne che sobria – la cocaina scorreva come la benzina – e i budget esplodevano a ogni ciak, ma il risultato è un film che vibra di energia, passione e incoscienza. The Blues Brothers è una sinfonia di clacson, fiati e pneumatici stridenti, una perfetta collisione tra cartoni animati e opera rock. Sì, è uno sketch del Saturday Night Live, un musical R&B, un Looney Tunes per adulti, e anche un road movie dell’anima. Ma soprattutto, è un miracolo di equilibrio tra disordine e armonia.
Jake e Elwood – rispettivamente John Belushi e Dan Aykroyd – non sono clown da palcoscenico, ma sacerdoti di un culto musicale che trascende il tempo. Non cercano la risata facile, non ammiccano mai. Sono silenziosi, granitici, impassibili di fronte all’assurdo, come Bugs Bunny in missione divina. E quella missione – salvare l’orfanotrofio dove sono cresciuti – diventa il pretesto per scatenare una jam session cinematografica che non conosce limiti.
E che jam! James Brown, Ray Charles, Aretha Franklin, Cab Calloway – giganti della musica black prestano non solo la voce ma anche l’anima al film. Ogni numero musicale è un momento di pura epifania: non solo intrattenimento, ma dichiarazione d’amore per un patrimonio culturale che il film celebra con rispetto e adorazione. Altro che appropriazione: The Blues Brothers mette questi artisti al centro della scena, con la luce giusta e lo spazio per brillare.
Fuori dal palco, il film si trasforma in un balletto di distruzione coreografata. Carrie Fisher nei panni dell’ex fidanzata vendicativa lancia razzi, bombe, mitragliatrici e insulti come se fosse Wile E. Coyote in versione glam. E poi ci sono le auto, le incredibili, folli, spettacolari auto che volano, esplodono, si ribaltano come se ogni inseguimento fosse l’ultimo della storia del cinema. La Ford Pinto che piove dal cielo? Vera. Lanciata da un elicottero. Perché? Perché sì. Perché era The Blues Brothers.
E alla fine, non c’è niente di sottile o intellettuale in tutto questo. È puro istinto. È adrenalina. È cuore. È l’urlo disperato e gioioso di chi crede ancora che la musica possa salvare, che l’amicizia sia sacra e che valga la pena mandare tutto in frantumi pur di fare la cosa giusta.
The Blues Brothers non è solo un film. È un evento. Un culto. Un atto d’amore verso un’epoca, un suono, una visione del mondo. E a 45 anni dalla sua uscita, continua a farci ballare sulla sedia, a ridere come bambini e a credere – magari solo per un’ora e mezza – che anche noi possiamo essere “in missione per conto di Dio”.
