Il 27 giugno debutta la nuova, attesissima stagione di Squid Game. Una serie che, fin dal primo episodio, ha fatto molto più che intrattenerci: ci ha messo davanti a uno specchio. Sporco, crudele, ma onesto. Milioni di spettatori nel mondo sono rimasti incollati allo schermo non solo per scoprire chi sarebbe sopravvissuto, ma perché, in fondo, si riconoscevano in quella corsa disperata verso un premio impossibile.
Ma cosa rende Squid Game una delle serie più potenti degli ultimi anni? E cosa ci spinge a tornare, sapendo quanto fa male guardarla?

Un gioco per bambini. Un incubo per adulti.

Il primo colpo di genio di Squid Game è tutto lì: prendere i giochi dell’infanzia e trasformarli in prove mortali.
Non è solo una scelta visiva potente, ma una dichiarazione tematica: anche ciò che credevamo puro può essere usato contro di noi. L’infanzia viene corrotta dalla logica del profitto, dell’intrattenimento, della crudeltà. I colori pastello, le scenografie geometriche, le maschere da cartone animato: tutto crea un contrasto disturbante tra estetica e contenuto.

Il capitale decide, il popolo combatte

Squid Game non è una semplice distopia. È una critica feroce alla nostra realtà: un mondo in cui i debiti divorano la dignità, in cui i più poveri si sbranano per sopravvivere, mentre i più ricchi osservano da lontano, annoiati e onnipotenti.
La metafora è trasparente: la società è diventata un’arena, e ogni scelta – anche la più estrema – può sembrare legittima se è l’unica via d’uscita. Nessuno è davvero libero. Tutti sono “giocatori”.

La morale si confonde. E tu, cosa faresti?

Un altro elemento che ha reso Squid Game un fenomeno è l’ambiguità morale dei personaggi.
Non ci sono veri eroi, solo persone rotte, stanche, schiacciate dalla vita. Ognuna con una storia, ognuna con una colpa o una ferita. Lo spettatore non guarda da fuori: entra nel gioco.
Ogni scelta dei protagonisti ci costringe a interrogarci su noi stessi: “Cosa farei al suo posto? Fino a dove sarei disposto a spingermi per vivere?”

Un’estetica virale. Un linguaggio globale.

In un mondo fatto di immagini, Squid Game ha creato un’iconografia immediata: le tute rosa, i cerchi-triangoli-quadrati, la bambola assassina, il biglietto da visita con il numero.
Simboli diventati virali, replicabili, entrati nel linguaggio comune. La serie ha vinto anche su TikTok e Instagram, trasformandosi in un’esperienza pop globale, senza perdere però la profondità della sua denuncia.

La seconda stagione: sopravvivere non basta più

Se la prima stagione raccontava la discesa agli inferi, la seconda promette un cambio di passo: non basta più salvarsi, ora bisogna smascherare il sistema.
Il protagonista non è più solo un sopravvissuto, ma un uomo in cerca di giustizia. Il gioco continua, ma le regole potrebbero cambiare. O forse no. Perché chi ha il potere difficilmente lo cede. E chi lo sfida… rischia tutto.

In fondo, non è solo una serie. È una domanda.

Squid Game ci piace – anzi, ci ossessiona – perché non parla di un altro mondo, ma del nostro.
Ci mette davanti a ciò che preferiremmo ignorare: la violenza invisibile delle disuguaglianze, la fatica di sopravvivere, l’umiliazione quotidiana del sentirsi esclusi.
E ci chiede, sottovoce, mentre il sangue scorre sul pavimento lucido:

“Tu… giocheresti?”

Di Martina Bernardo

Vengo da un galassia lontana lontana... Appassionata di cinema e serie tv anche nella vita precedente e devota ai Musical

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