Il 2025 sarà ricordato come l’anno in cui la serialità televisiva ha definitivamente abbandonato ogni zona di comfort.
Niente più formule rassicuranti o intrattenimento addomesticato: quest’anno ci ha regalato opere che mordono, che penetrano sotto la pelle, che non cercano il consenso facile ma la verità scomoda. Dalle viscere del capitalismo petrolifero texano agli abissi dell’animo fascista italiano, dai corridoi angoscianti di un pronto soccorso alle distorsioni kafkiane di una corporazione misteriosa, il panorama seriale si è trasformato in un campo di battaglia dove ogni storia ha qualcosa da dire, da urlare, da sussurrare nell’orecchio dello spettatore.
Quello che colpisce, scorrendo la lista delle migliori serie approdate in Italia tra gennaio e dicembre, è la consapevolezza che la televisione non sia più il fratello minore del cinema. È diventata qualcos’altro: un laboratorio di sperimentazione narrativa dove autori visionari possono dispiegare le loro ossessioni su tele più ampie, dove il tempo diventa alleato anziché vincolo. E dove il pubblico, sempre più esigente e alfabetizzato, pretende complessità, stratificazione, coraggio.
Partiamo da Adolescence, il gioiello Netflix che Stephen Graham ha ideato, scritto e interpretato come un atto d’amore disperato verso il concetto stesso di genitorialità contemporanea. Quattro episodi girati in piano sequenza che trasformano il dispositivo tecnico in necessità espressiva: lo sguardo non può distogliersi, non può trovare rifugio in uno stacco di montaggio. L’abisso generazionale tra un padre e un figlio diventa un vortice angosciante dove le parole non dette pesano quanto quelle gridate, dove ogni silenzio nasconde un universo di incomprensioni. Graham firma una prova attoriale devastante, capace di contenere rabbia e tenerezza nella stessa inquadratura, nello stesso respiro.
Se Adolescence scandaglia il presente delle relazioni familiari, Dieci capodanni su RaiPlay ci regala una cartografia completa dell’amore romantico attraverso i decenni. Rodrigo Sorogoyen costruisce un mélo che omaggia Cassavetes e Linklater senza mai cadere nella citazione vuota: Ana e Óscar diventano archetipi universali, la loro storia è quella di tutte le coppie che si incontrano, si perdono, si ritrovano sotto il peso inesorabile del tempo. Travolgente nella sua onestà erotica, struggente nella sua capacità di catturare i momenti di grazia e quelli di disfacimento, la serie spagnola è una delle sorprese più belle dell’anno, un inno alla possibilità che l’amore sopravviva a sé stesso.
Il terrore invece assume le sembianze più classiche e al tempo stesso più perturbanti con It: Welcome to Derry su Sky e NOW. Tornare nell’universo di Stephen King dopo i film di Andy Muschietti significava rischiare la ridondanza, ma la serie prequel ambientata negli anni Sessanta trova la sua ragion d’essere nell’esplorazione delle origini del male. Pennywise non è solo un clown assassino: è l’incarnazione delle paure collettive di un’America che stava perdendo l’innocenza. Il formato seriale permette di indugiare su dettagli che il cinema aveva dovuto sacrificare, di costruire un’atmosfera claustrofobica dove l’orrore non è solo quello che vedi, ma quello che intuisci aggirarsi dietro ogni angolo di Derry.
Dalla provincia maledetta del Maine ci spostiamo nei campi petroliferi del Texas con Landman su Paramount+, che alla seconda stagione conferma Taylor Sheridan come uno dei cronachisti più lucidi e spietati del capitalismo americano contemporaneo. Non è solo mitologia western aggiornata ai nostri tempi: è uno sguardo tragico sulla Grande Commedia Umana, dove ricchezza e dannazione camminano mano nella mano, dove ogni barile di petrolio estratto porta con sé un prezzo umano incalcolabile. Billy Bob Thornton domina lo schermo con una presenza magnetica, incarnando quella particolare categoria di americani che credono ancora nel sogno mentre assistono al suo disfacimento.
Ma se vogliamo parlare di incubi storici che continuano a parlare al presente, dobbiamo confrontarci con M. Il figlio del secolo, l’opera più coraggiosa e necessaria dell’anno televisivo italiano. Joe Wright trasforma il romanzo di Antonio Scurati in un’esperienza cinematografica che travolge, che disturba, che non concede tregua. Luca Marinelli non si limita a interpretare Mussolini: lo incarna con una prova monstre che sfonda la quarta parete, costringendoci a riconoscere che quella retorica, quella gestualità, quella fame di potere non appartengono a un passato remoto ma a un presente inquietante. Il flusso narrativo vorticoso, l’intreccio tra repertorio d’archivio e ricostruzione, la fotografia plumbea e fiammeggiante compongono un ritratto che non cerca la spiegazione facile ma la comprensione scomoda.
Guy Ritchie torna invece alle sue ossessioni originarie con MobLand su Paramount+, esplorando il sottobosco gangster londinese con un cast stellare guidato da Tom Hardy e da una Helen Mirren nei panni di una Lady Macbeth contemporanea. Le ritualità criminali, le sovrapposizioni tra famiglia naturale e famiglia malavitosa, il codice d’onore che si scontra con la brutalità necessaria: Ritchie orchestra questi elementi con la sicurezza di chi conosce perfettamente il territorio, ma aggiunge una riflessione sulla mascolinità tossica e sulle sue conseguenze che eleva la serie oltre il semplice crime drama.
L’attesa per la seconda stagione di Scissione su Apple TV+ è stata estenuante, ma il ritorno alla Lumon Industries ha dimostrato che certe visioni richiedono il loro tempo per maturare. Il tema del doppio viene amplificato fino a generare distorsioni stranianti: la divisione tra il sé che lavora e il sé che vive si trasforma in questione filosofica sulla natura dell’identità, sulla possibilità stessa di essere integri in un mondo che ci vuole frammentati. La posta in gioco si alza, il mistero si infittisce, e lo spettatore si ritrova intrappolato in un labirinto kafkiano dove ogni risposta genera nuove, vertiginose domande.
Con The Studio su Apple TV+, Seth Rogen firma un affresco geniale del mondo produttivo hollywoodiano che è al tempo stesso satira feroce e dichiarazione d’amore alla fabbrica dei sogni. La serie funziona perché non cade mai nella tentazione del cinismo facile: mostra le assurdità del sistema, le sue contraddizioni, le sue ipocrisie, ma riconosce anche la magia che ancora è possibile creare quando passione e professionalità si incontrano. Il risultato è un paradossale manifesto di una Neo-Nuova Hollywood che cerca di reinventarsi sotto il peso delle piattaforme streaming e delle trasformazioni del mercato.
Il medical drama torna prepotentemente con The Pitt su Sky e NOW, che prende il modello di E.R. e lo contamina con il tempo reale di 24. Il risultato è un ritratto lucido e disperato dell’America contemporanea visto attraverso il pronto soccorso di una grande città. Ogni caso che arriva in sala trauma è uno spaccato della società: la violenza armata, la crisi degli oppioidi, la diseguaglianza nell’accesso alle cure, la disperazione economica. La serie non predica né giudica: osserva con lo sguardo compassionevole ma non sentimentale di chi sa che la redenzione non è sempre possibile, ma la dignità umana va preservata anche nell’inferno.
Poi c’è Task su Sky e NOW, crime drama che mette al centro il confronto tra Mark Ruffalo nei panni di un agente federale e Tom Phelphrey come criminale carismatico. Ciò che distingue Task dalla massa dei procedurali è lo scavo profondo dei personaggi principali e delle loro famiglie, il gioco continuo di sovrapposizione e distanziamento emotivo tra due nuclei familiari che si ritrovano su fronti opposti della legge. Non è solo una questione di bene contro male: è un’esplorazione di come le scelte che facciamo definiscano non solo noi stessi ma anche chi ci sta accanto, di come la moralità sia terreno scivoloso dove nessuno può proclamarsi innocente.
A questa costellazione già impressionante si aggiunge la stagione finale Andor su Disney+, la serie che ha definitivamente dimostrato come l’universo di Star Wars possa diventare materia politica, adulta, profondamente contemporanea. Tony Gilroy costruisce un racconto di ribellione che rifiuta il mito dell’eroe predestinato per abbracciare la fatica collettiva della resistenza. Cassian Andor è un uomo comune, fallibile, che diventa simbolo non per vocazione ma per necessità. La serie parla di oppressione, sorveglianza, sacrificio e compromesso morale con una lucidità che raramente si è vista in un prodotto mainstream, trasformando la fantascienza in una lente potentissima sul nostro presente.
In fine su Apple TV+ Pluribus si impone come una delle esperienze più enigmatiche e destabilizzanti dell’anno. Ambientata all’interno di una corporazione apparentemente utopica, la serie esplora il concetto di comunità come strumento di controllo, spingendo la riflessione su identità, libero arbitrio e manipolazione psicologica. Il racconto procede per sottrazione, accumulando inquietudine più che risposte, e costringendo lo spettatore a interrogarsi su quanto siamo davvero liberi quando scegliamo di appartenere a qualcosa. Pluribus è fantascienza sociale mascherata da thriller aziendale, e proprio per questo profondamente perturbante.
Queste serie non sono semplicemente il meglio che il 2025 ha offerto: sono la dimostrazione che la serialità televisiva ha raggiunto una maturità espressiva tale da poter competere, e spesso superare, qualsiasi altra forma narrativa contemporanea. Ognuna di esse, a suo modo, ci ha parlato di chi siamo, di dove stiamo andando, delle paure e delle speranze che ci definiscono come società. E lo ha fatto senza sconti, senza concessioni al gusto medio, ma con il coraggio di chi sa che il pubblico merita rispetto, sfida, complessità. Il 2025 televisivo ci ha lasciato senza fiato: ora tocca a noi recuperare e lasciarci travolgere.