Ci sono vite che non entrano in due ore di cinema. Quella di Charles Aznavour è una di queste.
Novantaquattro anni di esistenza vissuta con un’intensità rara, 1500 canzoni composte, concerti in ogni angolo del pianeta, una sessantina di film interpretati, collaborazioni con artisti del calibro di Frank Sinatra e François Truffaut. Eppure Monsieur Aznavour, il biopic diretto da Medhi Idir e Grand Corps Malade, sceglie una strada diversa: non l’enciclopedia impossibile di una carriera stratosferica, ma il racconto concentrato degli inizi, quella fase accidentata e feroce in cui Shahnourh Varinag Aznavourian, bambino armeno arrivato in Francia per sfuggire al genocidio, si trasforma nell’icona che conosciamo.
La scelta narrativa dei registi, al loro terzo film insieme, è chiara e coraggiosa. Invece di disperdere l’attenzione su decenni di trionfi, il film si immerge nella fase della costruzione del mito, quando il successo era ancora una promessa lontana e ogni ostacolo sembrava insormontabile. Il piccolo Charles deve fare i conti con il body-shaming ante litteram, con il razzismo verso la sua famiglia armena, con quella voce vellutata dal vibrato inconfondibile che i critici consideravano troppo debole per conquistare le folle. La storia è quella della rivincita, della voglia feroce di autoaffermazione che non conosce sconfitta.
Il film si struttura attraverso cinque capitoli, ciascuno intitolato a una canzone del repertorio di Aznavour, raccontando la famiglia povera ma luminosa, il rapporto simbiotico con la sorella, la partnership artistica con Pierre Boche e soprattutto l’incontro determinante con Edith Piaf. La Môme diventa mentore, protettrice e figura chiave nella traiettoria del giovane artista, in quel modo complesso e viscerale che solo i grandi della chanson francese sapevano incarnare.
Chi ha vissuto gli anni Settanta e Ottanta ricorda perfettamente le sue canzoni italiane: Buon anniversario con quella risatina malinconica, Com’è triste Venezia, La Bohéme, E io tra di voi. Ballate di amori finiti, tradimenti, rimpianti, cantate con una voce che ripeteva sempre “io”, come se ogni storia fosse autobiografica. Aznavour inventò un nuovo modo di scrivere e cantare, passando dalle canzonette del dopoguerra alle lunghe narrazioni intime che hanno segnato la cultura musicale del Novecento.
Il cuore pulsante del biopic è l’interpretazione di Tahar Rahim, rivelato nel 2009 da Il profeta di Jacques Audiard. Rahim non cade nella trappola dell’imitazione ma si trasforma nel corpo, nei gesti, nell’energia di Aznavour, evocandone la presenza senza scimmiottarlo. È un lavoro di sottrazione e aggiunta insieme, tecnicamente complesso, che restituisce il carisma inspiegabile di un uomo considerato brutto e sgraziato eppure capace di ammaliare platee in tutto il mondo.
Il cast solido e la cura formale accompagnano una narrazione rispettosa, a tratti forse troppo scolastica per necessità di sintesi. Perché la verità è che la vita di Aznavour richiederebbe ben più di un film: servirebbe una serie per contenere i successi internazionali, i cachet alla pari di Sinatra, le canzoni incise in tutte le lingue, l’attivismo per la causa armena, il dolore per il suicidio del figlio illegittimo a venticinque anni, quella contraddizione profonda di un uomo generoso di doni materiali ma assente dalla vita dei suoi cari, innamorato del palco più che di qualsiasi altra cosa.
Monsieur Aznavour ci ricorda quanto sia fondamentale celebrare chi ha fatto la storia della musica, quelle personalità oggi troppo dimenticate che hanno forgiato un’epoca. Il film, con tutti i limiti strutturali del genere biografico, rende omaggio a un gigante della chanson e lo fa con il rispetto dovuto ai grandi. Resta la sensazione, però, che questa sia solo la prima metà di una storia che meriterebbe un seguito, un capitolo due che racconti il Charles Aznavour della maturità, delle conquiste planetarie, delle battaglie politiche. Perché alcune vite sono semplicemente troppo grandi per un solo film.