Cosa succede alla realtà quando viene proiettata su uno schermo?

È una domanda che attraversa decenni di teoria cinematografica, da André Bazin a Stanley Cavell, ma che raramente trova risposta in un’opera così personale e viscerale come Filmlovers! di Arnaud Desplechin. Presentato a Cannes 2024, il film si configura come un ibrido affascinante: parte autobiografia, parte documentario, parte videosaggio. Un’operazione che ricorda l’intimità di The Fablemans di Steven Spielberg, ma con la consapevolezza teorica di chi ha fatto del cinema non solo una professione, ma un’ossessione esistenziale.

Desplechin torna al suo alter ego cinematografico, Paul Dedalus, lo stesso personaggio che sta a lui come Antoine Doinel stava a François Truffaut. Attraverso questa maschera narrativa, il regista francese ripercorre la genesi del proprio amore per la settima arte, dalla prima volta in sala fino agli esperimenti giovanili, intrecciando indissolubilmente cinema e vita. Il risultato è un film che vibra di passione controllata, dove ogni sequenza diventa una riflessione sul rapporto tra spettatore e immagine.

Ma Filmlovers! non è solo nostalgia. Il titolo originale, Spectateurs, chiarisce immediatamente l’intento: indagare l’esperienza dello spettatore, quella figura che proietta letteralmente la propria ombra sullo schermo. Come viene spiegato nel film a proposito di certa pittura, lo sguardo di chi osserva diventa parte integrante dell’opera. È un concetto potente: noi non guardiamo passivamente il cinema, ma lo completiamo con la nostra presenza, con la nostra anima.

Desplechin costruisce il suo racconto alternando ricordi personali e frammenti di storia del cinema. Vediamo i fratelli Lumière, Alfred Hitchcock, Ingmar Bergman, Francis Ford Coppola, King Hu. Ma anche Fantomas, Matrix, Terminator, Die Hard, Point Break, Aliens, persino Notting Hill. Non c’è gerarchia tra cinema d’autore e cinema di genere: tutto ciò che lascia un’impronta nella memoria dello spettatore merita dignità. È lo scintillio del desiderio che si fissa sullo schermo e trasforma il mondo in spettacolo.

Il film affronta anche questioni spigolose e mature. La lunga disamina dedicata a Shoah di Claude Lanzmann solleva interrogativi drammatici sulla rappresentazione dell’irrapresentabile. L’omaggio a Misty Upham, l’attrice nativa americana morta tragicamente nel 2014, diventa un momento di riflessione sul cinema come strumento di restituzione di dignità agli emarginati. Desplechin non si accontenta di celebrare: vuole capire, interrogare, mettere in discussione.

C’è un momento del film in cui Micha Lescot, nei panni di un professore, spiega il paradosso della sala cinematografica: tutti condividiamo lo stesso punto di vista, quello registrato dalla macchina da presa, eppure l’idea di visione collettiva è un malinteso. Ogni spettatore vive un’esperienza profondamente individuale. E con l’avvento della televisione e dello streaming, le immagini non appartengono più a nessuno, si disperdono, perdono quella sacralità che avevano quando potevano essere viste solo nel buio di una sala.

Non è un caso che il piccolo Paul Dedalus, al cinema per la prima volta, fissi il fascio di luce che esce dalla cabina di proiezione prima ancora di guardare le immagini sullo schermo. Quella luce è magia pura, è l’origine di tutto. È il momento in cui la realtà si trasforma in altro, in possibilità infinite.

A Cannes 2024, accanto a Filmlovers! è stato presentato C’est pas moi di Leos Carax, un’altra riflessione sul cinema, ma con un approccio sperimentale e godardiano. I due film sono complementari: se Carax decostruisce, Desplechin costruisce. Se Carax provoca, Desplechin abbraccia. Filmlovers! è narrativo, truffautiano, pervaso da un candore quasi adolescenziale che convive con la maturità dell’analisi teorica.

Il film pone domande più che dare risposte. E forse è proprio questo il suo messaggio più profondo: il cinema è una domanda, non una risposta. Come quando il padre di Paul, davanti alla televisione, gli dice che quel certo regista è il più grande del mondo. “Perché?”, chiede il bambino. “Non lo so”, risponde il padre. Ed è l’unica risposta possibile per chi ama davvero il cinema, perché l’amore non si razionalizza, si vive.

Desplechin costruisce un film che è al tempo stesso una dichiarazione d’amore e una tesi di laurea, un ricordo personale e un manifesto generazionale. Ogni cinefilo troverà qualcosa di sé in queste immagini, che si tratti della scelta del posto preferito in sala o del ricordo di una proiezione che ha cambiato tutto. Perché alla fine, questo è ciò che fa il cinema: ci trasforma, ci interroga, ci accompagna. E non smette mai di chiederci: cosa vedi quando guardi lo schermo? Cosa proietti di te stesso su quelle immagini? Chi sei, quando le luci si spengono?

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