C’è un paradosso che aleggia su “Avatar Fuoco e cenere”, il terzo capitolo della saga di Pandora: James Cameron, il maestro indiscusso dei sequel cinematografici, ha creato un film che ripete sé stesso invece di evolversi.

L’uomo che ci ha regalato Aliens, Terminator 2 e Avatar: La via dell’acqua – opere che hanno ridefinito il concetto stesso di seguito – questa volta sembra accontentarsi di un déjà vu visivamente stupefacente ma narrativamente stagnante.

Uscito a soli tre anni di distanza dal predecessore, Fuoco e cenere riprende la storia un anno dopo la morte di Neteyam. Jake Sully è consumato dal desiderio di vendetta, Neytiri naviga in un mare di dolore, e Lo’ak porta il peso della colpa del sopravvissuto. Sono premesse potenti, promesse di una riflessione profonda sul lutto e sulla perdita. Promesse che il film non mantiene del tutto, preferendo rifugiarsi nelle dinamiche familiari già viste e in strutture narrative che riecheggiano troppo da vicino quelle di La via dell’acqua.

Il vero fulcro narrativo diventa Spider, il figlio adottivo umano dei Sully, interpretato da Jack Champion. Il giovane attore porta una genuinità che ricorda il John Connor di Edward Furlong in Terminator 2, ma il personaggio rimane sottosviluppato rispetto al tempo che gli viene dedicato. Quando Spider acquisisce la capacità di respirare senza maschera grazie all’invasione di micelio nel suo corpo, diventa la chiave che potrebbe permettere agli umani di colonizzare Pandora. È un’idea fantascientifica intrigante, ma viene trattata più come espediente narrativo che come vera esplorazione tematica.

La delusione maggiore arriva con Varang, la leader dei Mangkwan, un clan Na’vi dalla pelle color cenere che vive presso i vulcani e rifiuta le leggi di Eywa. Interpretata da una Oona Chaplin terrificante e magnetica, Varang viene presentata come una figura quasi messianica al contrario, una leader di culto che governa attraverso la forza e la manipolazione. La sequenza in cui Quaritch – sempre più imponente grazie a Stephen Lang in stato di grazia – arriva nel suo territorio è tra le migliori che Cameron abbia mai girato. Poi il film la riduce a comparsa, a interesse romantico secondario per Quaritch, sprecando un potenziale enorme per una villain davvero memorabile.

Eppure, quando Fuoco e cenere decide di concentrarsi sullo spettacolo puro, rimane imbattibile. L’arrivo dei Wind Traders – una carovana nomade sospesa sotto enormi meduse volanti chiamate Medusoids e trainata da creature cefalopodiche – offre alcune delle immagini più straordinarie dell’intera saga. Cameron costruisce inquadrature così dense di dettagli, di ceste, di oggetti, di vita vissuta, che trasformano un semplice mercato Na’vi in un dipinto fiammingo in movimento. E quando l’azione esplode, nessuno può competere con la sua maestria logistica: le sequenze aeree attraverso i complessi militari industriali, con Jake e i suoi alleati che volteggiano sui loro ikran tra strutture metalliche e fiamme, sono poesia cinetica di altissimo livello.

La tecnologia continua ad avanzare. Cameron ha tenuto a precisare che nemmeno un singolo fotogramma è stato generato da intelligenza artificiale generativa, rivendicando il contributo umano in ogni aspetto del film. È una dichiarazione di principio nobile, anche se i film di Avatar rappresentano comunque un futuro in cui umano e sintetico si fondono indissolubilmente. La motion capture ha raggiunto livelli di raffinatezza tale che Zoe Saldaña riesce a trasmettere ogni sfumatura emotiva attraverso i tratti di Neytiri, specialmente in una sequenza esplosiva che la colloca definitivamente accanto a Ellen Ripley e Sarah Connor nel pantheon delle madri guerriere cameroniane.

Il problema centrale rimane la struttura. Fire and Ash replica troppi elementi di La via dell’acqua: l’addestramento in un nuovo ambiente, il momento del rifiuto, l’animale incompreso che diventa alleato, la battaglia finale contro cacciatori che sottovalutano le creature di Pandora. È come se Cameron avesse applicato la sua formula del “sequel come variazione amplificata” senza rendersi conto che, arrivati al terzo capitolo, serve qualcosa di più della mera amplificazione. Serve trasformazione.

Con i suoi 195 minuti di durata, il film fatica a giustificare la propria lunghezza. Ci sono troppe scene che sembrano alternate o scene eliminate dei capitoli precedenti, troppi momenti in cui la sensazione di familiarità prevale sulla scoperta.

Eppure Fire and Ash rimane un’opera che solo James Cameron poteva realizzare. Nessun altro regista contemporaneo ha la visione, le risorse e l’ostinazione per costruire un universo cinematografico così completo, destinato a sopravvivere attraverso attrazioni nei parchi a tema, videogiochi e merchandise per generazioni. Il problema non è tanto ciò che il film è, ma ciò che avrebbe potuto essere: la conclusione potente di una trilogia invece che un capitolo intermedio che marca il passo.

La domanda ora è se il quarto film – la cui realizzazione sembra inevitabile nonostante tutto – saprà ritrovare quella capacità di elevare la temperatura che ha reso Cameron un maestro. Perché Fuoco e cenere, per quanto spettacolare (e solo per questo va assolutamente visto al cinema), rappresenta qualcosa di nuovo e inquietante nella sua filmografia: un sequel che si accontenta di setacciare i detriti del passato invece di costruire sul futuro. E per un visionario come Cameron, questa è la vera cenere che brucia.

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