Cosa succede quando una psichiatra scopre che una delle sue pazienti si è tolta la vita? Per la maggior parte dei professionisti, sarebbe un momento di riflessione dolorosa, forse di terapia personale. Per Lilian Steiner, protagonista di Vita privata diretto da Rebecca Zlotowski, diventa l’inizio di un’indagine ossessiva che la porta a mettere in discussione non solo le sue capacità professionali, ma l’intera architettura della sua esistenza.

Il film si muove su un terreno affascinante, quello dove psichiatria e indagine poliziesca si incontrano da sempre. Un territorio che la narrativa gialla ha esplorato fin dalle sue origini, consapevole che scavare nell’inconscio umano e risolvere un crimine sono due facce della stessa medaglia. Rebecca Zlotowski lo sa bene e costruisce un thriller psicologico che oscilla con naturalezza tra tensione investigativa e commedia brillante, senza mai perdere il ritmo né la leggerezza necessaria a rendere questa storia un divertissement cinematografico di rara intelligenza.

Al centro di tutto c’è Jodie Foster, che per la prima volta interpreta un ruolo interamente in francese, dimostrando una padronanza linguistica cristallina frutto dei suoi studi giovanili. Non si tratta di un vezzo: la scelta di affidarle questo personaggio permette alla regista di lavorare su un doppio registro, quello della distanza emotiva e della precisione quasi chirurgica con cui Lilian Steiner gestisce la propria vita. Una vita che si consuma in un perimetro ristretto: dal salotto allo studio dove riceve i pazienti, tutti rigorosamente registrati su minidisc vintage che raccontano quanto questa donna sia ancorata a rituali del passato.

Lilian non è particolarmente empatica. Ascolta, certo, ma applica un filtro professionale che sembra più un muro di protezione che uno strumento terapeutico. Divorziata da un ex marito interpretato da Daniel Auteuil, con un figlio ormai autonomo e neo-padre, vive in una bolla di solitudine borghese dove tutto sembra sotto controllo. Fino a quando non arriva la notizia: una paziente si è suicidata. E lei non aveva colto i segnali.

È qui che la narrazione cambia marcia. Lilian non accetta l’idea di essersi lasciata sfuggire qualcosa di così definitivo. Il senso di colpa si trasforma rapidamente in missione: dimostrare che non si è trattato di suicidio, ma di omicidio. Da questo momento Vita privata diventa un labirinto di false piste, colpi di scena e momenti di comicità inaspettata, soprattutto quando rientra in gioco l’ex marito, oculista di professione e perfetto dottor Watson pronto a supportarla in questa impresa investigativa sempre più assurda e coinvolgente.

La regista Rebecca Zlotowski dimostra una capacità rara nel gestire toni apparentemente inconciliabili. Da un lato c’è il thriller classico, con l’avvicinamento alla famiglia della defunta, il marito ostile che accusa Lilian di negligenza professionale, la figlia che diventa presto la principale sospettata. Dall’altro c’è una dimensione sentimentale e perfino erotica, con il rapporto tra i due ex coniugi che si riaccende proprio mentre cercano di risolvere il caso. Non è un’operazione semplice, eppure funziona perché Zlotowski non prende mai troppo sul serio né il thriller né la commedia, ma intreccia i due registri con un ritmo che ricorda i meccanismi stessi dell’inconscio: imprevedibile, contraddittorio, sorprendente.

Jodie Foster è perfettamente a suo agio in questo ruolo. Il suo volto, capace di passare dalla freddezza analitica all’esplosione emotiva nel giro di una scena, diventa lo specchio delle contraddizioni di Lilian. Una donna che ha passato la vita a scavare nella quotidianità degli altri senza mai applicare lo stesso metodo a se stessa. Una professionista della razionalità che si trova improvvisamente travolta dall’irruzione imprevista dei sentimenti, quelli che non si possono controllare né registrare su un minidisc.

Accanto a lei, Daniel Auteuil costruisce un personaggio di contorno che diventa fondamentale. Il suo oculista ex marito ha il compito simbolico di restituire la vista alla psichiatra, di farle vedere ciò che ha sempre ignorato: la propria umanità, le proprie fragilità, il proprio bisogno di connessione autentica. I momenti più divertenti del film nascono proprio dal loro incontro, da questa coppia improbabile che si ritrova a indagare insieme con una complicità che pensavano perduta per sempre.

Il film si muove nel territorio tradizionale del giallo, ma lo fa con una messa in scena che avvicina psicanalisi e cinema, inconscio in fibrillazione ed eventi esterni più buffi che drammatici. Non c’è la pretesa del grande cinema d’autore, e questo è un pregio. Zlotowski sceglie il piacere del racconto con brio, costruisce un’opera che intrattiene senza essere superficiale, che diverte senza rinunciare a una riflessione più profonda sulla solitudine, sull’incapacità di vedere se stessi mentre si scrutano gli altri.

Vita privata è un thriller leggero nella forma ma non nel contenuto. È un giallo che non si dimentica delle emozioni, una commedia sentimentale che non rinuncia alla tensione investigativa. È soprattutto un film che dimostra come il cinema possa ancora giocare con i generi senza prendersi troppo sul serio, restituendo allo spettatore il piacere di lasciarsi guidare in un labirinto narrativo dove ogni svolta può essere quella decisiva, o semplicemente un altro specchio in cui riflettersi.

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