Ennio Morricone nasce a Roma nel 1928 e, prima ancora che il suo nome diventi sinonimo di colonna sonora, è un ragazzo con una tromba in mano e una disciplina ferrea da conservatorio.

Studia composizione a Santa Cecilia, scrive pezzi “seri”, arrangia per l’orchestra RAI e per la canzone italiana, firmando anche brani come “Se telefonando”, senza immaginare che il suo destino sarà quello di cambiare per sempre il modo in cui ascoltiamo le immagini. Il cinema arriva quasi in sordina, nei primi anni ’60, con le musiche per film come “Il federale” di Luciano Salce, ma la svolta vera ha il volto di un compagno di scuola: Sergio Leone. Con “Per un pugno di dollari” nel 1964, seguito da “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto, il cattivo”, Morricone inventa un vocabolario sonoro nuovo: fischi, fruste, campane, chitarre elettriche, cori, voci femminili come quella di Edda Dell’Orso che diventano strumenti puri.

Non accompagna il West all’americana, lo riscrive alla maniera italiana, sporca e malinconica, trasformando ogni tema in un personaggio: l’urlo della tromba e il fischio solitario del “Buono, il brutto, il cattivo” sono riconoscibili in ogni angolo del mondo e la colonna sonora viene oggi considerata una delle più celebri di sempre. Con Leone la collaborazione prosegue e si sublima in “C’era una volta il West”, con i suoi temi cuciti addosso ai personaggi – il respiro sospeso del leitmotiv di Jill, l’armonica funebre che annuncia Charles Bronson – e in “Giù la testa” e “C’era una volta in America”, elegia gangster che fonde nostalgia, infanzia perduta e rimpianto in poche note di bandoneon e archi. Ma la carriera di Morricone è molto più vasta dei western: fin dagli anni ’60 lavora con registi diversissimi tra loro, da Gillo Pontecorvo a Bernardo Bertolucci, da Mauro Bolognini a Pier Paolo Pasolini.

Con Pontecorvo firma “La battaglia di Algeri”, partitura asciutta e politica, che sembra quasi un respiro trattenuto dentro la storia, mentre con Bertolucci compone per “Novecento”, grande affresco corale in cui le sue melodie accompagnano la trasformazione di un Paese intero. Negli anni del giallo e dell’horror, Morricone si diverte a smontare ancora una volta il linguaggio: con Dario Argento firma la “trilogia animale” – “L’uccello dalle piume di cristallo”, “Il gatto a nove code”, “4 mosche di velluto grigio” – costruendo tappeti sonori disturbanti fatti di sussurri, dissonanze, cori infantili e pianoforti ossessivi, e prosegue con lavori per altri maestri del brivido italiano, da Lucio Fulci a Umberto Lenzi, fino ad arrivare all’horror americano con “La Cosa” di John Carpenter, un tema glaciale, essenziale, fatto di poche note che pulsano come un cuore alieno sotto il ghiaccio.

Nello stesso periodo scrive per il cinema d’autore internazionale: “Days of Heaven” di Terrence Malick, dove il suo romanticismo dialoga con il silenzio dei campi di grano, “The Mission” di Roland Joffé, forse uno dei suoi lavori più amati, in cui l’oboe di “Gabriel’s Oboe” sembra un’anima che si arrampica verso il cielo, e “Gli intoccabili” di Brian De Palma, dove fonde tensione, eleganza e azione in un unico respiro orchestrale. Parallelamente, Morricone continua a lavorare con la stessa intensità anche nel cinema italiano e nella televisione: compone per “La piovra”, rendendo indimenticabile l’immaginario sonoro delle storie di mafia anni ’80 e ’90, e firma decine di colonne sonore per drammi, commedie, film politici, passando con naturalezza da Pedro Almodóvar a Tinto Brass, da Elio Petri a Liliana Cavani, da Mario Bava a Roman Polanski.

Se il sodalizio con Leone è quello che lo consegna al mito, la sua relazione più lunga e romantica con il cinema è probabilmente quella con Giuseppe Tornatore: a partire da “Nuovo Cinema Paradiso”, Morricone diventa la voce musicale del regista siciliano, accompagnando praticamente tutti i suoi film successivi. In “Nuovo Cinema Paradiso” il tema principale è un atto d’amore al cinema stesso, un ricordo che sa di pellicola consumata e baci rubati nello schermo; in “Stanno tutti bene”, “Una pura formalità”, “L’uomo delle stelle”, “La leggenda del pianista sull’oceano”, “Malèna”, “La sconosciuta”, “Baarìa”, “La migliore offerta” e “La corrispondenza” le sue partiture diventano la cifra emotiva dell’opera di Tornatore, così riconoscibile che lo stesso regista, anni dopo, gli dedicherà il documentario “Ennio”, un film-sinfonia costruito sulla sua vita e sulla sua musica.

In mezzo a questa costellazione di registi, negli anni 2000 arriva anche Quentin Tarantino, che attinge da Morricone come da un archivio di memorie sonore e, infine, lo convinse a scrivere una colonna sonora originale per “The Hateful Eight”: un western innevato, chiuso, dove le musiche, dure e minacciose, gli valgono nel 2016 l’Oscar per la miglior colonna sonora, dopo una lunga serie di candidature dagli anni ’70 in poi e un premio Oscar onorario nel 2007 che già riconosceva la grandezza della sua carriera.

In oltre sessant’anni di attività, Morricone compone più di cinquecento colonne sonore per il cinema e la televisione, oltre a una vasta produzione “colta” per concerto e opere come la “Missa Papae Francisci”: vende decine di milioni di dischi nel mondo, influenza generazioni di musicisti, dal rock ai compositori contemporanei, e diventa un riferimento non solo per chi fa cinema, ma per chiunque pensi la musica come narrazione.

La sua forza sta in un paradosso: è al tempo stesso sperimentatore radicale e autore popolare, capace di usare il fischio, il rumore, il silenzio come strumenti emotivi, ma anche di creare melodie che puoi canticchiare uscendo dalla sala. Che si tratti del West mitico di Leone, delle piazze siciliane di Tornatore, delle missioni gesuitiche in Sud America, dei vicoli di Algeri o delle stanze chiuse di un mistery d’autore, la musica di Morricone non fa mai da sfondo: entra nel film come un personaggio, lo contraddice, lo amplifica, lo racconta. È per questo che, quando le luci si spengono e parte una sua nota, abbiamo la sensazione che il cinema, per un attimo, smetta di essere solo immagine e diventi, davvero, un modo di ascoltare il mondo.

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