C’è un film che nel 1991 provò a raccontare il futuro e venne punito per questo. Un’opera che parlava di dipendenza tecnologica, di narcisismo digitale, di un’umanità ipnotizzata dai propri dispositivi quando gli smartphone non esistevano nemmeno.
Quel film era Fino alla fine del mondo di Wim Wenders, e la sua sconfitta al botteghino fu il prezzo da pagare per essere arrivati troppo presto. Oggi, nella sua versione integrale di 287 minuti, torna al cinema come un monolito incompreso, un’opera profetica che solo il tempo ha saputo giustificare. Tra Paris, Texas e Il cielo sopra Berlino, Wenders aveva costruito un cinema di sguardi puri, di viaggi come redenzione, di strade come cattedrali dello spirito. Ma nel 1991 qualcosa si spezza. Il muro di Berlino è caduto, il mondo si è globalizzato, e il viaggio non è più uno strumento per dimenticarsi di sé e guardare con gli occhi di un bambino. È diventato un movimento frenetico, compulsivo, cieco. Il nuovo assunto è drammatico: l’eccesso di immagini della nostra società ci rende paradossalmente ciechi, tutti ripiegati in un narcisistico osservarsi attraverso l’ultimo dispositivo tecnologico.
Il soggetto nasce dalla penna di Wenders e dell’allora compagna Solveig Dommartin, da un’idea germinata nel 1977 dopo un primo viaggio del regista tedesco in Australia. La storia contrappone una realtà fatta di velocità a una necessità di lentezza meditativa. Claire, Eugene e Sam attraversano il pianeta in un inseguimento perpetuo che tocca Venezia, Parigi, Berlino, Lisbona, Mosca, Kiev, Pechino, Tokyo, San Francisco. Sullo sfondo, un satellite indiano fuori controllo minaccia la fine del mondo. Ma il vero apocalisse è interiore.
La differenza tra il director’s cut attuale e la versione di 158 minuti presentata all’epoca negli Stati Uniti è abissale. Non sorprende il flop commerciale: molte delle scene eliminate nella versione breve erano essenziali per comprendere il falso movimento dei personaggi, le loro psicologie conflittuali e soprattutto l’approdo al continente australiano, dove l’opera si trasforma in una meditazione filosofica. È qui che il film recupera quel tempo perduto attraverso immagini seriali riprodotte freneticamente da microcamere ad alta definizione digitale, un concetto che suona straordinariamente contemporaneo.
Il dispositivo inventato da Henry, interpretato da un magnetico Max von Sydow, permette di registrare ciò che l’occhio vede e restituirlo a chi non può più guardare, come la madre cieca del protagonista Sam, affidata alla presenza eterea di Jeanne Moreau. Ma è proprio l’eccesso di immagini, il portare a galla memorie sepolte, che crea un danno irreversibile nella mente. La follia si manifesta in un urlo incessante mentre ci si nasconde negli anfratti della terra spazzata dal vento nucleare. Il filo conduttore non è la ripresa cinematografica ma la narrazione scritta e orale, accompagnata dalla musica. In principio era il Verbo, ma alla fine non ci sarà l’immagine.
Nella versione tagliata mancava la voce del narratore Eugene, interpretato da Sam Neill, e interi pezzi musicali erano saltati. Le quattro ore e quaranta minuti riproposte da Wenders restituiscono l’esperienza di una danza intorno al pianeta di individui perduti nel labirinto delle loro anime. Claire è la lost girl incarnata da Solveig Dommartin con una fragilità magnetica, Eugene lo scrittore che osserva e racconta, Sam l’oftalmologo interpretato da William Hurt con quella sua intensità trattenuta. La parte comica è affidata al detective strampalato Winter di Rüdiger Vogler, parodia dei grandi investigatori del noir americano.
L’unicità dell’opera risiede nell’utilizzo della colonna sonora come metronomo emotivo. Ogni pezzo ha un testo e una musica che sostituisce i dialoghi, creando una perfetta armonia con il ritmo della narrazione. La prima parte, più caotica, inizia a Venezia con Claire letteralmente immersa nel video dei Talking Heads Sax e Violins. La fuga prosegue sulle note di Summer Kisses Winter Tears di Elvis Presley e Move with me di Neneh Cherry. Ogni tappa ha la sua playlist d’autore: a Tokyo, mentre Sam diventa progressivamente cieco, risuona Nick Cave con I’ll Love You Until the End of the World; a San Francisco si alternano Lou Reed con What’s Good, i Rem con Fretless e gli U2 con Until the End of The World.
I tre protagonisti continuano ad inseguirsi anche se l’amore appare come una scala con un piolo rotto. La soluzione sta nel ritornare a uno stato primordiale, una nuova creazione dopo la fine del mondo, guidati dai canti dei pigmei africani e curati dalla prosa letteraria. I libri di Goethe e Walt Whitman sono spesso nelle mani di Claire ed Eugene, come antidoti alla tossicità delle immagini digitali. Ci vorrebbe un ponte per tutta questa solitudine, come recita il titolo di un cortometraggio del 1998 diretto dalla stessa Dommartin.
La fotografia di Robby Müller, collaboratore storico di Wenders, cattura questo universo che non sembra più avere immagini originali da offrire con una bellezza straniante. Ogni inquadratura è un tableau vivant che oscilla tra il documentario antropologico e la fantascienza contemplativa. Il vero film è in questo director’s cut, un’opera mondo che richiede tempo, pazienza e disponibilità a lasciarsi trasportare in un viaggio infinito attraverso le contraddizioni del nostro rapporto con la tecnologia.
Fino alla fine del mondo torna al cinema oggi come un messaggio in bottiglia finalmente decifrato. Quella che sembrava una deriva visionaria eccessiva negli anni Novanta è diventata una cronaca del nostro presente. Wenders aveva visto giusto: non è la fine del mondo a doverci spaventare, ma la fine della nostra capacità di vedere davvero. E forse, solo fermando il tempo nel momento magico dell’innamoramento, possiamo ancora salvarci dall’ipnosi degli schermi che ci siamo costruiti intorno.