In un’Algeria del 1575 dominata dai corsari barbareschi, prigioniero nei bassifondi del palazzo del temuto Bey, un giovane marinaio spagnolo di 28 anni — ferito, disperato, in attesa che qualcuno paghi la sua libertà — trova nella narrazione il proprio riscatto.
È questo il nucleo della vicenda di “Il prigioniero”, il nuovo film di Alejandro Amenábar, presentato fuori concorso al Torino Film Festival 2025 e prodotto con la collaborazione italiana di Propaganda Italia e Rai Cinema. Quel marinaio non è un personaggio qualunque, ma lo stesso Miguel de Cervantes che — decenni prima di firmare quel capolavoro che è “Don Chisciotte della Mancia” — scopre il potere salvifico del racconto. E in quel buio, tra catene e schiavitù, nasce l’artista che avrebbe rivoluzionato la letteratura. Amenábar racconta una vita dimenticata, spogliandola dei manti mitici e restituendola come storia umana, vulnerabile, passionale: una storia vera.
Nel film, il giovane Cervantes non si arrende. Di fronte alla brutalità e alla disperazione, egli si aggrappa alle parole e diventa affabulatore: racconta storie non solo per sé, ma per i compagni di prigionia, per trovare un senso, una speranza, un passato da non cancellare. È un atto di resistenza — non armata, ma poetica — che restituisce dignità a vite ridotte allo stremo, e che cela già in nuce il seme della futura grandezza letteraria.
Ma “Il prigioniero” non si limita a riscrivere l’origine artistica di Cervantes. Amenábar osa con un approccio audace: introduce un legame segreto, sensuale, tra Cervantes e il Bey di Algeri, interpretato da Alessandro Borghi. Un legame che nel contesto storico e geografico dell’epoca appare come una scommessa narrativa, un tocco ardito che — secondo il regista — riflette una visione più libera della sessualità, spesso ignorata o censurata.
La scelta di Amenábar è motivata da una ricerca intima dell’uomo dietro il mito: “In un’Algeri dove i corsari passeggiavano con i loro amati compagni, ho rivisto una sorta di anacronistico gay-pride”, ha dichiarato, sottolineando come la morale sia relativa, e la storia troppo complessa per restare intrappolata in stereotipi. Il regista ammette di aver puntato su questi elementi non per scandalo, ma per mettere in luce una verità meno nota, per dare corpo a emozioni e identità che spesso restano in ombra.
Il film, incentrandosi su quegli anni di prigionia, su quell’esperienza drammatica e trasformativa, pone la domanda su cosa significhi essere liberi — non solo nel corpo, ma nell’anima. Per Amenábar, “Il prigioniero” è anche un gesto quasi autobiografico: racconta di qualcuno che trova il proprio salvataggio nelle storie che crea, e quella capacità di narrare diventa la vera arma contro la disperazione e la reclusione.
Con la sua produzione ambiziosa, con una messa in scena che mescola crudezza storica e lirismo, “Il prigioniero” non è solo un film d’avventura o un biopic d’autore: è una riscrittura poetica di un’origine, una ricognizione del dolore che dà vita all’arte, un inno alla capacità di trovare la bellezza e la verità anche nei luoghi più bui.