Nel vasto panorama musicale degli anni ’80, un’epoca dominata da sintetizzatori pulsanti e melodie indimenticabili, una canzone si è elevata sopra tutte le altre. Non parliamo di un fenomeno passeggero, ma di un brano che ha letteralmente conquistato le classifiche, restando inchiodato al vertice della Billboard Hot 100 per nove settimane consecutive. Quel brano è “Bette Davis Eyes” di Kim Carnes, rilasciato il 10 marzo 1981 come parte del suo sesto album in studio Mistaken Identity.
La voce roca e distintiva di Kim Carnes ha dato vita a questa traccia synth-driven in un modo che nessun altro avrebbe potuto replicare. Nonostante la sua carriera musicale vanti pezzi amati come “Voyeur”, “More Love”, “Invisible Hands” e “Don’t Fall in Love with a Dreamer”, è proprio “Bette Davis Eyes” che ha segnato indelebilmente il suo nome nella storia della musica pop. La melodia ammaliante, combinata con quella voce graffiante e sensuale, ha creato un’alchimia sonora che ha definito l’estetica dell’inizio degli anni ’80.
Ma c’è un dettaglio affascinante che molti ignorano: Carnes non ha scritto questa canzone. Il brano fu originariamente composto nel 1974 da Donna Weiss e Jackie DeShannon, sette anni prima che Carnes lo trasformasse in un fenomeno globale. Questo non significa che l’artista non fosse una compositrice talentuosa; al contrario, in Mistaken Identity aveva contribuito a scrivere tracce come “Hit and Run”, “Draw of the Cards” e “Break the Rules Tonite (Out of School)”. Tuttavia, la sua interpretazione totale di “Bette Davis Eyes” ha reso il pezzo così personale che sembra essere stato scritto appositamente per la sua voce unica.
Il successo della canzone non si è limitato alle nove settimane al numero 1. “Bette Davis Eyes” è diventato il più grande successo del 1981 secondo Billboard, un traguardo straordinario in un decennio ricco di hit memorabili. Durante la 24esima edizione dei GRAMMY Awards, Carnes ha portato a casa il premio per Record of the Year, con nomination aggiuntive per Best Pop Vocal Performance e Album of the Year per Mistaken Identity. Due statuette dorate che hanno certificato non solo il talento dell’artista, ma l’impatto culturale del brano.
I testi della canzone dipingono il ritratto di una donna enigmatica e irresistibile. “Precocious”, capace di far arrossire un professionista, con labbra come una “dolce sorpresa”: ogni verso costruisce l’immagine di una femme fatale che ricorda le dive dell’età d’oro di Hollywood. Il paragone con Jean Harlow, Greta Garbo e soprattutto Bette Davis non è casuale. L’attrice americana, icona indiscussa del cinema classico con capolavori come All About Eve, Jezebel e Dark Victory, era celebre per i suoi occhi grandi ed espressivi, un tratto distintivo che ha ispirato l’intera canzone.
Ma cosa pensò davvero Bette Davis del brano che portava il suo nome? All’epoca del rilascio, l’attrice aveva 73 anni e rimase inizialmente sorpresa. Durante un servizio fotografico con Carnes per la rivista People, Davis espresse il suo entusiasmo, definendo la canzone “terrificante” nel senso più positivo del termine. In un’intervista successiva, l’attrice rivelò di essere rimasta sbalordita e di aver scritto a Donna Weiss per chiederle come potesse conoscerla così bene. Ma il momento più toccante fu la reazione di suo nipote Ashley, che da quel momento guardò la nonna con occhi completamente diversi, vedendola finalmente come un’icona anche nell’universo del rock ‘n’ roll.
Decenni dopo la sua uscita, “Bette Davis Eyes” ha acquisito una dimensione culturale completamente nuova. Sebbene non fosse stata concepita come tale, la canzone è stata abbracciata dalla comunità LGBTQ+ come un inno queer. Il motivo? La narrazione stessa del brano, con una voce femminile che descrive un’altra donna in termini così ammirati e seducenti, suggerisce un sottotesto saffico che generazioni di millennials e Gen Z hanno riconosciuto e celebrato. La donna descritta nel testo è pericolosa ma irresistibile, misteriosa ma affascinante, e la narratrice sembra incapace di resistere al suo richiamo nonostante i rischi.
Kim Carnes non si identifica pubblicamente come queer, ma la sua interpretazione del brano ha quella qualità indefinibile che trasforma una canzone pop in qualcosa di più profondo e personale. L’ambiguità dei testi, l’intensità emotiva della performance, il modo in cui ogni verso sembra vibrare di desiderio trattenuto: tutto contribuisce a creare un’opera multisfaccettata che parla a diverse generazioni in modi diversi. È un capolavoro di interpretazione artistica, dove la voce diventa veicolo di emozioni che trascendono le intenzioni originali degli autori.
Molti artisti hanno provato a coprire “Bette Davis Eyes” nel corso degli anni, ma nessuno è riuscito a catturare il carisma magnetico dell’originale. La versione di Carnes resta insuperata, un esempio perfetto di come un’artista possa prendere materiale scritto da altri e trasformarlo in qualcosa di così personale da diventare la sua firma indelebile. È questo che separa una semplice interpretazione da una performance leggendaria: la capacità di far credere a milioni di ascoltatori che quelle parole, quella melodia, quella voce siano state create appositamente per quel momento.
Oggi, a oltre quarant’anni dalla sua uscita, “Bette Davis Eyes” continua a essere riscoperta da nuove generazioni di ascoltatori. Il brano è diventato un ponte tra epoche diverse, un punto di riferimento culturale che unisce i fan della musica degli anni ’80 con i giovani che cercano autenticità e connessione emotiva nelle canzoni. È la dimostrazione che certi pezzi musicali non invecchiano mai: si trasformano, acquisiscono nuovi significati, parlano lingue diverse a persone diverse, ma mantengono intatto quel nucleo di magia che li ha resi speciali fin dall’inizio.
La storia di “Bette Davis Eyes” è quella di una canzone che ha superato ogni aspettativa. Da un brano scritto nel 1974 e rimasto nell’ombra per anni, a un fenomeno globale che ha dominato il 1981 e ha continuato a vivere attraverso i decenni. È la storia di una voce irripetibile, di testi che evocano immagini vivide e di un’icona del cinema che ha visto il proprio nome trasformato in leggenda musicale. E soprattutto, è la storia di come la musica possa creare connessioni inaspettate, abbattere confini e parlare al cuore delle persone in modi che gli stessi creatori non avrebbero mai immaginato.