Prima di sedurre il pubblico con la sua performance magnetica in Saltburn, prima di incarnare la vulnerabilità di Elvis Presley in Priscilla, e ben prima di dare vita alla Creatura nel Frankenstein di Guillermo del Toro, Jacob Elordi si è confrontato con un genere che non perdona: l’horror antologico.
Parliamo di The Mortuary Collection, diretto da Ryan Spindell nel 2020, un film che ha conquistato un impressionante 97% su Rotten Tomatoes ma che è rimasto incredibilmente sotto il radar del grande pubblico. The Mortuary Collection è un’opera che vive e respira nell’immaginario delle antologie horror classiche, quel tipo di narrazione frammentata che richiede un equilibrio delicato tra coesione narrativa e autonomia dei singoli episodi. Il cuore pulsante del film è Montgomery Dark, interpretato da un eccezionale Clancy Brown, il becchino locale che racconta storie macabre a Sam, una giovane donna interpretata da Caitlin Custer. Sam non è una semplice ascoltatrice passiva: è affascinata, quasi eccitata da questi racconti disturbanti, e questo dinamismo tra i due personaggi diventa il collante che tiene insieme le quattro storie dell’antologia.
Elordi appare nel secondo segmento, intitolato “Unprotected”, dove interpreta Jake, un ragazzo del college il cui comportamento disonesto e arrogante lo porta a pagare un prezzo orribile dopo una notte di passione. È un ruolo che anticipa la sua capacità di incarnare personaggi complessi e moralmente ambigui, anche se questo particolare episodio rappresenta paradossalmente il punto più debole dell’intera raccolta. Il body horror che pervade “Unprotected” si spinge verso territori volutamente esagerati, dove l’umorismo chiassoso sovrasta la tensione genuina che dovrebbe caratterizzare il genere.
Ma liquidare The Mortuary Collection solo per il suo segmento più debole sarebbe un errore imperdonabile. Il film affonda le sue radici in The Babysitter Murders, il cortometraggio del 2015 con cui Spindell aveva già dimostrato la sua capacità di sovvertire ogni cliché del genere slasher. Quella storia di 22 minuti, intrisa di immagini terrificanti e gore ben orchestrato, viene espansa e rimodellata in uno dei segmenti più riusciti dell’antologia, quello che riesce a intrecciare perfettamente il twist finale con la cornice narrativa principale.
Ogni storia di The Mortuary Collection segue il framework classico della morality play, dove i peccati vengono puniti con una violenza che è al tempo stesso giustificata e cinematograficamente spettacolare. Una donna che commette un furto apparentemente innocente durante una festa si imbatte in qualcosa di mostruoso e ultraterreno. Un marito in lutto viene consumato da una colpa orribile che lo trascina attraverso un vortice di sofferenza. E naturalmente, il dongiovanni irresponsabile di Elordi subisce conseguenze che vanno ben oltre l’imbarazzo sociale.
Il film di Spindell non raggiunge le vette di Creepshow, l’antologia seminale di George A. Romero e Stephen King che aveva attinto a piene mani dall’estetica luridamente colorata degli EC Comics. Eppure, The Mortuary Collection si presenta come un omaggio consapevole e affettuoso a quella tradizione, anche quando la sua tonalità esagerata non sempre centra il bersaglio. La cittadina immaginaria di Raven’s End, con la sua atmosfera gotica e le sue ombre dense, diventa un personaggio a sé stante, un luogo dove il macabro e il sublime si fondono in un’esperienza visiva memorabile.
Ciò che rende questo film una gemma nascosta non è solo la sua capacità di mescolare gore ben realizzato con momenti di autentica tensione narrativa, ma anche il modo in cui anticipa i talenti che avrebbero definito la carriera successiva di Jacob Elordi. Guardare la sua performance in “Unprotected” oggi, dopo aver assistito alla sua trasformazione in attore di straordinaria versatilità, offre una prospettiva unica su come il giovane interprete stesse già esplorando le zone d’ombra della condizione umana.
The Mortuary Collection è un film che celebra l’assurdità sincera del genere, che non ha paura di sporcarsi le mani con viscere e fluidi corporei, ma che mantiene sempre uno sguardo consapevole sulla propria natura di intrattenimento pulp. E in un’epoca in cui l’horror cerca spesso di legittimarsi attraverso il dramma elevato, c’è qualcosa di rinfrescante in un’opera che abbraccia senza vergogna la propria identità di racconto moralmente didascalico ma visivamente sconvolgente.
Il 97% su Rotten Tomatoes non è solo un numero: è il riconoscimento di un’opera che, nonostante le sue imperfezioni evidenti, riesce a intrattenere, sorprendere e occasionalmente disturbare con una sicurezza che molti horror contemporanei possono solo invidiare.