Nel 1995 John Carpenter, già acclamato come uno dei maestri dell’horror americano, accettò di dirigere il remake di “Village of the Damned”, adattando per Hollywood il classico britannico del 1960 e, a sua volta, il romanzo di John Wyndham “The Midwich Cuckoos”.
L’ambientazione si spostò dal Regno Unito alla costa californiana, trasformando una storia di inquietudine silenziosa in un horror fantascientifico più vicino all’estetica carpenteriana, visivamente incisiva, cupa e quasi sospesa. Tra i nomi presenti nel cast compariva anche Mark Hamill, che interpretava il reverendo George: una scelta particolare, perché per il pubblico Hamill era ancora soprattutto Luke Skywalker, eroe della saga di Star Wars. Il film rappresentò per lui un’occasione per uscire dai confini dell’icona fantascientifica che lo aveva consacrato, affrontando un ruolo meno luminoso e più trattenuto, immerso in un contesto dove la minaccia non è una forza oscura galattica, ma qualcosa di molto più domestico e sottilmente perturbante.
La trama del remake segue la misteriosa tragedia che colpisce la cittadina di Midwich: un’intera comunità che sviene all’improvviso, un blackout inspiegabile di diverse ore e, successivamente, dieci donne che si ritrovano incinte senza spiegazione. I bambini che nasceranno, dai capelli platino e dagli occhi innaturalmente luminosi, si rivelano creature prive di empatia e dotate di poteri telepatici, capaci di trasformare la loro apparente innocenza in una forza minacciosa che mette in crisi l’equilibrio della città. Carpenter accentua il lato più fisico e visivo della storia: la diversità dei bambini non è solo narrativa, ma diventa immagine, un simbolo di perfezione inquietante, un’allusione a un’idea di razza “superiore”, fredda e uniforme. Il regista gestisce il racconto con eleganza e alcuni momenti di pura tensione, ma ammise in diverse occasioni che si trattò di un progetto affrontato più per obbligo contrattuale che per vera passione creativa. Nonostante questo, alcuni dettagli portano chiaramente la sua firma: la costruzione dell’atmosfera, la minaccia che avanza silenziosa, la riflessione sulla paura dell’ignoto che invade il quotidiano. Hamill, immerso in questo tono sospeso, interpreta un personaggio che osserva, tenta di comprendere e infine si scontra con l’orrore, contribuendo a dare un’impronta diversa a un film che vuole dire qualcosa pur vivendo nella tensione tra reinterpretazione e fedeltà all’originale.
All’uscita, “Village of the Damned” fu un insuccesso: critica negativa, pubblico tiepido, performance al botteghino inferiore alle aspettative. Le recensioni dell’epoca parlavano di un film poco incisivo, incapace di competere con il fascino austero dell’originale del 1960, penalizzato da personaggi considerati poco approfonditi e da una narrazione ritenuta troppo lineare. Tuttavia, come spesso accade per le opere di Carpenter, il tempo ha lavorato in direzioni diverse. Oggi una parte crescente del pubblico horror lo considera un film sottovalutato, segnato da intuizioni visive affascinanti e da sequenze che catturano quello che potremmo definire “l’horror tranquillo” di Carpenter, fatto di silenzi, sguardi e presenze inquietanti più che di esplosioni di terrore. Non è un capolavoro, non è all’altezza dei suoi titoli più acclamati, ma è un tassello importante della sua carriera, anche perché mostra il momento in cui il regista tenta un equilibrio tra industria e visione personale. Allo stesso modo, per gli appassionati di Mark Hamill, costituisce un piccolo ritratto di un attore che, prima di diventare uno dei doppiatori più amati del mondo grazie al suo Joker, cercava nuove strade per allontanarsi dal mito di Star Wars e misurarsi con ruoli più scuri e complessi.
Riguardare oggi “Village of the Damned” significa osservare un film ponte: tra un’epoca e l’altra dell’horror, tra la volontà di ridisegnare un classico e la difficoltà di liberarsi dalle sue ombre, tra un Carpenter che sta cambiando pelle e un Hamill che prova a reinventarsi. È un’opera imperfetta ma ricca di spunti, un pezzo di storia del cinema di genere che racconta, più che la paura dei bambini mostruosi, la paura di ciò che non comprendiamo e che ci somiglia troppo.