Sul ring della vita, dove i colpi più duri non si vedono mai arrivare, Emily Blunt ha imparato una lezione che Mark Kerr, campione di arti marziali miste, probabilmente avrebbe dovuto ascoltare prima: la vittoria è un’illusione passeggera, mentre la sconfitta ti mostra davvero di che pasta sei fatto.
In The Smashing Machine di Benny Safdie, premiato con il Leone d’Argento per la regia a Venezia 82 e nelle sale italiane dal 19 novembre distribuito da I Wonder Pictures, l’attrice britannica interpreta Dawn Staples, compagna tormentata di Kerr, e paradossalmente ruba la scena a Dwayne Johnson, quello stesso The Rock che dal wrestling è diventato una stella di Hollywood.
Sembrava un incastro perfetto sulla carta: un ex sportivo che ne interpreta un altro, la mascolinità incarnata che racconta la brutalità del ring. Eppure è proprio Emily Blunt, con la sua fragilità controllata e la sua capacità di trasformare il dolore in poesia visiva, a diventare il cuore pulsante del film. “Non sono molto d’accordo con Mark“, confessa l’attrice con quella franchezza che la caratterizza. “Penso che forse sia proprio dalle sconfitte che impariamo molto su noi stessi. Quando perdi capisci quanto sei in grado di sopportare”.
Il film, ambientato tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, racconta un’America pre-11 settembre ancora intrisa di quella particolare forma di innocenza che permetteva di credere nell’invincibilità. Il sogno americano vibrava con una forza quasi palpabile, quel senso di possibilità illimitata che oggi suona come un’eco lontana. Ma Blunt va oltre la nostalgia: “Vincere è una sensazione effimera, che ti fa bene solo momentaneamente. La sconfitta invece forgia il tuo carattere”. È questo uno dei messaggi centrali del film, un monito contro l’ossessione per la vittoria a tutti i costi: non bisogna permettere che il desiderio di primeggiare eclissi il bisogno fondamentale di prendersi cura di se stessi.
La connessione tra il regista e il protagonista è nata proprio grazie all’attrice: sul set di Oppenheimer di Christopher Nolan, Blunt ha recitato con Safdie e scoperto che stava cercando un protagonista per The Smashing Machine. Ha pensato immediatamente a Johnson, con cui aveva già lavorato in Jungle Cruise, ritenendolo perfetto per il ruolo. “Serviva una mascolinità non rappresentata in modo moralista, ma esposta per ciò che è realmente: ovvero parte di una complessità che va a formare una persona a tutto tondo”.
Dawn Staples è un personaggio che trasmette un’energia incredibile in superficie, ma che nasconde ferite profonde. La sua relazione con Mark è tossica, una codipendenza malsana dove lei si appoggia completamente a lui, forse proprio perché, a differenza del compagno, non ha un sogno proprio. “C’è una codipendenza malsana tra Mark e Dawn”, spiega Blunt. “Tra i due è lui ad avere il controllo, lei è quella codipendente. Quindi una ricetta per il disastro”. L’attrice sottolinea quanto sia fondamentale avere dei sogni, uno scopo: la propria identità non può basarsi su come ti percepisce il tuo partner o su come ti ama. “Se tutto il tuo senso di sé si basa su un’altra persona, questo finirà per isolarti”.
Il film esplora proprio questa fragilità degli esseri umani in contrapposizione con la facciata dell’invincibilità. Sentirsi imbattibili può trasformarsi in una maledizione, come scopre Kerr quando cede alla spirale degli antidolorifici. “La caduta in disgrazia è percepita come drammatica. Ma se ti senti invincibile avrai sempre la tendenza a fare la fine di Icaro, volato troppo vicino al sole“, riflette Blunt. “L’invincibilità è più una facciata: è quello che cerchi di trasmettere al mondo, ma non è chi sei veramente”.
Anche Dawn, come Mark conferma nel film, era funzionale a un certo tipo di relazione: a lui piaceva che fosse sempre disponibile ogni volta che lo ritenesse opportuno. Una dinamica di potere squilibrata che l’attrice restituisce con una sottigliezza devastante, mostrando come l’amore possa trasformarsi in prigione quando diventa l’unica fonte di identità.
Atleti e attori condividono un peso comune: la pressione della performance davanti a un pubblico. Nel film vediamo Kerr crollare sotto questo peso. Ma Emily Blunt come gestisce quella stessa pressione? “A volte mi sembra di non riuscire a gestirla bene. Non sono sicura di riuscirci sempre”, ammette con disarmante onestà. “Capita di sentirsi bloccati, sopraffatti dallo stress. Dipende da caso a caso: cerco sempre di pensare al fatto che in fondo la pressione di per sé non è negativa, ma va semplicemente affrontata”.
La sua strategia? Trasformare tutto ciò che è negativo in una sorta di rumore bianco: “So che c’è, che esiste, ma lo lascio sullo sfondo. Ho capito che molto dipende da quanto lo ascolto”. Una filosofia zen che probabilmente le servirà anche per affrontare l’hype intorno a Il Diavolo Veste Prada 2, di cui le riprese sono terminate e il teaser trailer ha già scatenato l’entusiasmo dei fan.
Tra l’altro, sul set ritroverà Stanley Tucci nel ruolo di Nigel, attore che nel frattempo è diventato suo cognato avendo sposato sua sorella Felicity Blunt. Lei riprenderà il ruolo di Emily Charlton, e quando le chiediamo se perfino Dawn Staples, il suo personaggio tormentato di The Smashing Machine, sia felice di questo sequel, l’attrice sorride: “Sì, credo che sia entusiasta. Mi ha detto che non vede l’ora”.
Grazie a The Smashing Machine, che ha già conquistato la critica a Venezia, Blunt potrebbe essere nominata a diversi premi. Ma forse la vera vittoria, quella che conta davvero, è aver dato voce a un personaggio che incarna una verità scomoda: non sono i trionfi a definirci, ma come reagiamo quando tutto crolla. Perché è solo quando perdi che capisci davvero chi sei.