C’è ancora qualcosa da dire su Rino Gaetano? La domanda sembra retorica, considerando la quantità di tributi, documentari e celebrazioni dedicati al cantautore calabrese scomparso tragicamente nel 1981.

Eppure Giorgio Verdelli, regista che ha ritratto alcuni dei più grandi nomi della musica italiana da Pino Daniele a Lucio Battisti, da Paolo Conte a Mia Martini, è convinto di sì. “Secondo me non è mai stato raccontato al meglio”, confessa. E quando un narratore del suo calibro pronuncia queste parole, vale la pena ascoltare.

Rino Gaetano sempre più blu, il nuovo documentario prodotto da Sudovest Produzioni e Indigo Film in collaborazione con Rai Documentari, arriva al cinema dal 24 al 26 novembre distribuito da Medusa Film. Non è l’ennesima celebrazione nostalgica, ma un’operazione di scavo archeologico nella memoria di un artista che all’epoca venne sistematicamente sottovalutato. “Erano almeno dieci anni che cercavo di fare un film su di lui, avendolo anche conosciuto personalmente”, racconta Verdelli. “Purtroppo c’è poco materiale”. Una scarsità che paradossalmente diventa la chiave di lettura del progetto.

Il film si costruisce attraverso materiali unici: estratti di tracce inedite come Un Film a Colori – Jet set, taccuini privati, interviste radiofoniche e testimonianze frammentate che compongono un puzzle emotivo più che biografico. A dare corpo alla narrazione ci sono i ricordi di amici e collaboratori come Riccardo Cocciante, Danilo Rea, Giovanni Tommaso, Shel Shapiro, e poi gli omaggi di eredi spirituali quali Brunori Sas, Lucio Corsi, Giordana Angi e Sergio Cammariere. La voce narrante è affidata a Peppe Lanzetta, mentre contributi di Claudio Santamaria, Paolo Jannacci e Valeria Solarino arricchiscono il mosaico. Ma il vero colpo di scena sta altrove.

Per la prima volta, la famiglia Gaetano ha concesso l’autorizzazione. “Non l’avevano mai data. Io ci sono riuscito”, spiega Verdelli con un misto di orgoglio e commozione. “Forse perché hanno visto che effettivamente lo conoscevo e ne avevo la prova. Quella è stata l’arma segreta”. Non si tratta di vanità professionale, ma della legittimazione necessaria per raccontare un artista che fu sempre percepito come altro, come un alieno nel panorama musicale italiano degli anni Settanta.

E qui emerge una delle rivelazioni più sorprendenti del documentario. Lucio Battisti, il monumento sacro della canzone italiana, adorava Sfiorivano le viole. “Me l’ha detto Rino stesso, non ne ho la riprova”, ammette Verdelli, “ma non faccio fatica a crederlo. Perché è un pezzo battistiano, se ci pensi”. La testimonianza di Arturo Stàlteri, pianista tra i più apprezzati della scena nazionale e collaboratore di Gaetano, aggiunge un altro tassello: c’era la Kosmische Musik tedesca in quelle composizioni, c’erano finali epici che anticipavano Franco Battiato. “Il marchese La Fayette ritorna dall’America importando la rivoluzione e un cappello nuovo”: scritto nel 1977, è un verso di genialità profetica.

Ma allora perché Rino Gaetano venne relegato nell’angolo del cantautore simpatico, quello della canzonetta? Verdelli non ha dubbi e lancia una provocazione che fa discutere: “Andare a Sanremo con Gianna ha fatto male a Rino Gaetano. Io ne sono convinto, e lui sarebbe stato d’accordo con me. Lui voleva andare con Nuntereggae più ma non glielo consentirono”. È vero che la performance fu rivoluzionaria, il primo artista ad andare su quel palco prendendo in giro il festival stesso. Ma quella partecipazione lo cristallizzò nell’immaginario collettivo, lo ridusse a una dimensione che non gli apparteneva completamente.

Il paradosso di Rino Gaetano sta tutto qui: scriveva canzoni semplici con testi complessissimi, ma negli anni Settanta l’attenzione era tutta sulla melodia, sulla simpatia dell’artista. Oggi, nell’epoca dell’hip hop e del rap, dove il testo torna centrale, Gaetano viene riscoperto dalle nuove generazioni con una consapevolezza che all’epoca gli venne negata. Andrea Scanzi, nel documentario, sottolinea come tra il 1975 e il 1980 siano usciti alcuni dei dischi più importanti della storia della musica italiana. E tra questi c’è l’opera di Rino Gaetano, un tassello necessario per capire l’Italia di quegli anni.

Il film si muove tra memoria e geografia emotiva. Tommaso Labate percorre a bordo di una Fiat 128 la natia Calabria di Gaetano, mentre Carlo Massarini e Pietrangelo Buttafuoco offrono le loro analisi. Ma è forse l’ultimo disco, E io ci sto del 1979, a offrire la chiave per capire dove sarebbe andato l’artista: “Io cerco il rock’n’roll al bar e nei metrò”. Una direzione tra reggae e rock, come dimostra l’inedito Un Film a Colori – Jet set, un reggae arrangiato dal grande Giovanni Tommaso.

Verdelli non nasconde che realizzare il documentario senza una lunga intervista con il protagonista sia stata una sfida: “Mi sono dovuto arrampicare sugli specchi e farlo raccontare da altri utilizzando anche qualche momento onirico-poetico”. Il risultato è un’opera che non cerca di riempire i vuoti con la speculazione, ma che li rispetta, trasformandoli in spazi di riflessione. Perché forse è proprio in quei silenzi, in quel materiale mancante, che si nasconde l’essenza di un artista che non volle mai essere completamente afferrabile.

Quarantacinque anni dopo l’uscita di E io ci sto, la domanda di Verdelli risuona con attualità inaspettata: “Io cerco il rock’n’roll al bar e nei metrò: tu oggi dove lo cerchi?”. La risposta del regista è disarmante nella sua semplicità: “Dentro di me, è uno stato mentale. Non è solo la chitarra distorta, è un modo di vivere”. Rino Gaetano non amava particolarmente il rock, ma incarnava quel modo di vivere. Era reggae e cantautorato, era provocazione e malinconia, era l’Italia che cambiava vista da un osservatorio laterale, obliquo, volutamente fuori fuoco.

L’eredità di Gaetano vive oggi nelle centinaia di tribute band sparse per il paese, nelle sue canzoni che continuano a galleggiare nell’aria delle radio e delle piattaforme streaming. Ma soprattutto vive in quella lezione di libertà creativa che continua a ispirare artisti diversissimi tra loro. Verdelli conclude con un desiderio: se potesse, vorrebbe fare un documentario sugli Squallor. “Purtroppo non c’è praticamente materiale. Però… tutti hanno ascoltato un pezzo degli Squallor, no?”. Come per Rino Gaetano, anche in quel caso si tratterebbe di raccontare non solo una musica, ma un’epoca, un modo di guardare l’Italia con occhi disincantati e struggenti.

Rino Gaetano sempre più blu non è solo un documentario. È un atto di giustizia culturale verso un cantautore che se n’è andato troppo presto, a soli trent’anni, in un incidente automobilistico nel 1981. Un artista che scrisse versi profetici come “Michele Novaro incontra Mameli e insieme scrivono un pezzo tuttora in voga”, prima ancora che l’Inno d’Italia venisse rivalutato. Uno che, secondo Verdelli, influenzò persino Battiato, anche se mancano le prove definitive. Ma in fondo, le prove definitive non sono mai state il forte di Rino Gaetano. Lui viveva nelle zone d’ombra, dove la realtà si confonde con il sogno e dove, forse, la musica è più vera.

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