Nel panorama delle innumerevoli trasposizioni cinematografiche del romanzo di Mary Shelley Frankenstein: or, The Modern Prometheus, la versione curata da Guillermo del Toro e distribuita da Netflix si distingue per una scelta radicale: trasformare Victor Frankenstein nel vero antagonista della storia.
Oscar Isaac, che presta volto e inquietudine al protagonista, non interpreta un semplice scienziato tormentato, ma un uomo profondamente abusivo, narcisista, incapace di amare e del tutto privo di redenzione, confermando la visione di del Toro, per cui il creatore è più mostruoso della creatura stessa. Il mito si ribalta: non è l’essere riportato in vita a incarnare l’orrore, ma chi lo plasma.
La lettura offerta da del Toro non concede zone d’ombra: Victor non è l’eroe tragico che sfida i limiti della scienza, né l’uomo che impara dai propri errori. È un individuo tossico, arrogante, definito da un ego smisurato e da una brillantezza malata che schiaccia chiunque gli stia accanto. La sua ossessione scientifica non nasce dal desiderio di progresso, ma dall’esigenza di essere ammirato, compreso e quasi venerato. In questa reinterpretazione, Victor diventa un manipolatore brillante che utilizza la scienza come arma di dominio. Il suo rapporto con la famiglia, con Elizabeth e soprattutto con la Creatura è segnato da un bisogno costante di controllo. Non c’è pietà per lui né nel racconto né nella messa in scena: Isaac lo interpreta come un uomo incapace di empatia, guidato più dal proprio risentimento che da autentica ricerca. Il risultato è un personaggio che incarna molte delle maschere del potere contemporaneo — uomini che costruiscono, distruggono e pretendono di essere celebrati comunque.
La forza del film sta anche nella scelta di esplorare l’origine emotiva della mostruosità di Victor. Del Toro, prendendo ispirazione anche dal contesto biografico di Mary Shelley — una giovane autrice circondata da uomini brillanti ma moralmente ambigui — racconta uno scienziato che vuole riportare in vita la madre non per amore, ma per dimostrare a se stesso di essere onnipotente. L’ambizione scientifica è la conseguenza di un vuoto mai colmato: Victor è un eterno figlio, incapace di crescere, che trasforma la perdita in ossessione. Il suo desiderio di creare vita non è un atto di progresso, ma un tentativo disperato di essere visto, amato, riconosciuto. Ed è proprio questo bisogno patologico che lo rende pericoloso: quello che dovrebbe essere un gesto di genialità diventa un atto di violenza emotiva che travolge Elizabeth, il fratello William e soprattutto la creatura, che nasce come proiezione dei suoi limiti, non come un esperimento fallito.
Guillermo del Toro sceglie deliberatamente di non umanizzare Victor. Lungo tutto il film, la regia costruisce una distanza emotiva che impedisce allo spettatore di provare compassione: Victor è elegante, magnetico, affascinante nell’estetica e mostruoso nella sostanza. Oscar Isaac, nella sua interpretazione controllata e tagliente, dà vita a un uomo che non cerca redenzione e non la merita. L’evoluzione narrativa non lo porta mai a guardarsi dentro, a pentirsi, a comprendere la creatura. Rimane fermo nella sua arroganza, come se fosse la scienza a dover inchinarsi a lui, non il contrario. Il risultato è un racconto crudele, lucido, che non concede allo spettatore la possibilità di scegliere Victor come protagonista morale. La creatura diventa così l’unico personaggio tragico, l’unico innocente ferito, l’unico che porta sulle spalle le colpe di un padre che non ha mai voluto davvero generare.
Questa nuova lettura di Frankenstein assume un valore particolare nel panorama cinematografico contemporaneo, perché rilegge un mito gotico alla luce delle dinamiche moderne: potere, ego, responsabilità, narcisismo. In un’epoca in cui la figura del genio incompreso viene spesso romanticizzata, del Toro compie il gesto opposto: mostra che il genio senza etica non è un visionario, è un tiranno. Shelley aveva scritto Frankenstein a vent’anni, in un mondo dominato da uomini carismatici ma profondamente autodistruttivi. Ripartire da questo dato, e declinarlo attraverso la sensibilità di Oscar Isaac, significa restituire al romanzo una lettura più femminile, più politica, più realista. Qui la scienza non è il problema: è l’uomo.
La versione Netflix di Frankenstein diretta da Guillermo del Toro e interpretata da Oscar Isaac non è un semplice adattamento ma un ribaltamento necessario. Victor non è lo scienziato brillante che gioca con il fuoco, ma il fuoco stesso: un uomo incapace di amare, incapace di crescere, incapace di vedere la vita che ha creato se non attraverso il filtro del proprio narcisismo. La creatura, paradossalmente, è più umana di lui. È per questo che questa versione funziona: perché mette a nudo l’origine del male, spostandolo dall’orrore esterno a quello interno. Non è il mostro a far paura, è chi lo crea.