Nel 2013 il regista Jonathan Glazer consegnò al pubblico un film che ha sfidato ogni convenzione del cinema di fantascienza: Under the Skin.

Al centro, una Johansson che non è più eroe da blockbuster né la ragazza-bellissima pronta al lieto fine, ma un’aliena seduttrice, un corpo umano solo in superficie, pronta a trasformare il desiderio maschile in strumento di consumo. Il film, vagamente ispirato al romanzo di Michel Faber, racconta la vicenda di una creatura che, adottando le sembianze di una donna, percorre la Scozia in un furgone alla ricerca di uomini soli, li invita in una casa fatiscente e li conduce in un abisso liquido dove perdono forma e identità.


Johansson, svestita delle sue corde retoriche glamour, compie una performance che imprigiona lo spettatore con il suo sguardo distante e freddo. Non è semplice antagonista: è lo specchio che riflette le paure dell’umano, la sua vulnerabilità, la sua carne-oggetto. La regia di Glazer accentua l’inquietudine attraverso scelte formali tendenti al minimalismo estremo: lunghe sequenze silenziose, riprese con telecamere nascoste nei momenti in cui Johansson “accosta” vittime reali, e un paesaggio scozzese reso straniante e alieno.


La colonna sonora, affidata a Mica Levi, accompagna quest’estraniazione con timbri violacei e dissonanti, che suggeriscono più un’esperienza emotiva che una trama ben definita, accentuando quel senso di straniamento che accompagna ogni scena. Nonostante gli incassi modesti – un budget di circa 13,3 milioni di dollari contro un incasso globale di circa 7,2 milioni. Il film è stato accolto dalla critica con entusiasmo e oggi viene considerato uno dei capolavori della prima metà del XXI secolo: è entrato nella classifica dei “100 Migliori film del XXI secolo” della BBC al 61° posto.


Ma cosa imprime davvero il segno di questa pellicola nella carriera della Johansson? Prima di tutto la discesa nel sottile territorio della vulnerabilità: quel corpo noto, quell’identità stabile, qui vengono smontati, decostruiti. Il suo ruolo cambia da icona desiderata a veicolo di riflessione: sull’altro, sull’estraneo, sul corpo che ospita un’anima o qualcosa che aspira a divenire tale. Un’aliena che impara a percepire la solitudine umana, l’empatia, la fragilità del contatto. In un’epoca in cui la Johansson era già associata a ruoli di grande richiamo commerciale, questa scelta si rivela come un atto di coraggio artistico: accettare l’inquietudine, il non-racconto tradizionale, il pubblico smarrito. Il risultato è un’opera che non conforta, che non offre risposte facili, ma pone domande sull’identità, sul corpo, sulla differenza e sull’altro.


In conclusione, “Under the Skin” resta un film che scava sotto la pelle della cinema, della fama, della bellezza e della seduzione: una trappola lenta e silenziosa che inchioda lo spettatore al suo sguardo, e restituisce la Johansson in uno stato di trasformazione permanente. Non solo un ruolo nel suo curriculum, ma l’officina di una mutazione, un invito a non dare per scontata l’apparenza.

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