Quando parla Roger Deakins, Hollywood si ferma ad ascoltare. Settantasei anni, sedici nomination all’Oscar, due statuette dorate conquistate con Blade Runner 2049 e il virtuosistico 1917: questo non è semplicemente un direttore della fotografia, è un testimone vivente delle rivoluzioni tecnologiche del cinema.
Dalla pellicola al digitale, dalle camere a manovella ai sensori da otto millimetri, Deakins ha attraversato mezzo secolo di cambiamenti senza mai perdere il passo. E ora che l’industria trema di fronte all’intelligenza artificiale, la sua risposta arriva chiara come una luce in controluce.
Durante un recente incontro col pubblico, riportato da World of Reel, il maestro della fotografia ha espresso una posizione che sta facendo discutere l’intera comunità cinematografica. “Non credo che l’IA sia imbrogliare”, ha dichiarato con la sicurezza di chi ha visto nascere e morire decine di “rivoluzioni” tecnologiche. La sua argomentazione non si basa su considerazioni tecniche o economiche, ma su qualcosa di più profondo: l’intenzione artistica.
“Se hai un motivo per farci un film, una buona storia e qualcosa da dire, a me non interessa quale mezzo usi”, continua Deakins. È una filosofia radicale nella sua semplicità, che sposta il focus dal come al perché. Non è lo strumento a definire il valore di un’opera, ma la visione che la guida. Una posizione che suona quasi provocatoria in un momento storico in cui creator, attori e tecnici si interrogano sul futuro stesso della professione.
La prospettiva di Deakins è quella del veterano che ha imparato una lezione fondamentale: l’innovazione tecnologica è inevitabile, l’arte è una scelta. Ha iniziato la sua carriera nella seconda metà degli anni Settanta, quando le pellicole si misuravano in millimetri e le luci richiedevano generatori diesel. Ha visto l’avvento del digitale, che molti consideravano la morte del cinema “vero”. Ha assistito alla nascita degli effetti visivi computerizzati, alla rivoluzione delle camere RED, alle nuove frontiere della post-produzione. E ogni volta, i puristi hanno gridato alla fine dell’arte cinematografica.
Ma il cinema è ancora qui. E Roger Deakins anche.
Il suo ultimo lavoro, Empire of Light del 2022 di Sam Mendes, dimostra che la sensibilità artistica non ha età né paura del futuro. Quello che conta per lui non è proteggere una tecnica specifica, ma preservare l’integrità narrativa. L’intelligenza artificiale diventa così solo l’ultimo capitolo di una storia che si ripete: ogni generazione ha i suoi demoni tecnologici, ogni epoca ha le sue battaglie tra tradizione e innovazione.
La posizione di Deakins si inserisce in un dibattito sempre più acceso. A Hollywood le opinioni sull’IA disegnano una mappa complessa di alleanze e resistenze. Da una parte c’è Guillermo del Toro, che appena un mese fa ha liquidato l’argomento con la sua consueta irruenza: “L’intelligenza artificiale generativa non mi interessa né mai mi interesserà. Ho 61 anni e spero di potermene disinteressare fino al giorno in cui schiatterò”. Una dichiarazione che suona come un manifesto generazionale, una linea tracciata sulla sabbia.
Dall’altra parte dello spettro troviamo James Cameron, che ha elogiato l’IA per la sua capacità di velocizzare i processi produttivi. “Non si tratta di licenziare la metà del personale in una compagnia che si occupa di effetti”, ha spiegato il regista di Avatar. “Si tratta di raddoppiare la loro velocità per completare una determinata sequenza”. Una visione pragmatica, quella di Cameron, che vede nella tecnologia uno strumento di potenziamento piuttosto che di sostituzione.
Anche George Miller, il visionario dietro Mad Max, si è espresso con ottimismo: l’IA “aprirà la narrazione audiovisiva a tutti”, democratizzando strumenti un tempo accessibili solo alle grandi produzioni. E persino attori del calibro di Michael Caine e Matthew McConaughey hanno ceduto le loro voci a sistemi di intelligenza artificiale, sostenendo che l’obiettivo sia “celebrare l’umanità, non rimpiazzarla”.
Ma la riflessione più inquietante è forse quella di Gore Verbinski, regista di Pirati dei Caraibi: “È una rivoluzione, non si sfugge, ma perché fa anche le cose che ci rendono umani?”. Una domanda che tocca il cuore del problema: se la tecnologia può replicare la creatività, cosa rimane dell’essere umano nel processo artistico?
Roger Deakins, nella sua saggezza acquisita attraverso cinquant’anni di carriera, offre una risposta indiretta ma potente. Non è la tecnologia a renderci umani o disumani. È l’intenzione. È avere qualcosa da dire. È la storia che vogliamo raccontare. L’IA può essere uno strumento neutro come una macchina da presa o una matita: dipende da chi la impugna e perché.
In un’industria che spesso confonde il progresso tecnico con il progresso artistico, le parole di Deakins riportano la conversazione dove dovrebbe essere: sul significato, non sul mezzo. Sulla storia, non sullo strumento. Sull’arte, non sull’algoritmo. Perché alla fine, come ha dimostrato attraverso capolavori come Fargo dei fratelli Coen, The Assassination of Jesse James, Skyfall e No Country for Old Men, ciò che rimane impresso nella memoria dello spettatore non è la tecnologia usata per creare un’immagine.
È l’emozione che quell’immagine riesce a trasmettere.
Mentre Hollywood continua a dibattere sul futuro dell’intelligenza artificiale nel cinema, forse la lezione più importante viene proprio da chi quel futuro lo ha già vissuto più volte. Ogni rivoluzione tecnologica porta con sé paure legittime e opportunità inaspettate. Ma il cinema sopravvive non perché rifiuta il cambiamento, né perché lo abbraccia ciecamente. Sopravvive perché ci sono ancora artisti che hanno qualcosa da dire, e che sceglieranno sempre il mezzo migliore per dirlo. Che sia pellicola, digitale o intelligenza artificiale, poco importa. Ciò che conta è la visione. E quella, nessun algoritmo potrà mai generarla da solo.