La risonanza tra Pluribus e l’universo di Foundation non è solo una curiosità narrativa: è il segno che la fantascienza continua a essere, in ogni epoca, un laboratorio metafisico in cui l’umanità interroga il proprio destino.
L’idea della mente collettiva, che in apparenza parla di tecnologia o biologia, in realtà mette a nudo il dilemma più profondo della condizione umana: siamo individui irriducibili o parti di un organismo più grande? Pluribus, con la sua inquietante diffusione di una coscienza condivisa che si sostituisce all’identità personale, racconta l’erosione del sé come conseguenza di un’armonia imposta. È una felicità che nasce dal contagio, non dalla scelta; un sollievo privo di libertà. L’hivemind della serie di Gilligan mette in scena la tentazione più antica della filosofia politica e morale: liberarsi del peso dell’individualità in cambio della pace interiore. Ma è una pace che somiglia a un silenzio forzato, non alla serenità. Gaia, nella Foundation di Asimov, rappresenta invece la stessa idea elevata a progetto cosmico: non la cancellazione dell’individualità, ma la sua trasfigurazione in una coscienza superiore, capace di contenere ogni differenza senza distruggerla.
È una visione che appartiene a un’umanità ancora fiduciosa nella possibilità di un progresso armonico, nella ragione come collante universale, nella cooperazione come superamento del limite individuale. Pluribus appartiene invece al nostro tempo, un’epoca in cui l’individuo avverte continuamente il rischio di essere assorbito: dai sistemi digitali, dalle narrazioni collettive, dalle pressioni sociali. La mente collettiva non è più promessa, è minaccia; non più orizzonte utopico, ma configurazione distopica del potere. L’idea stessa di “noi”, che nelle filosofie comunitarie è fondamento di solidarietà, diventa in Pluribus un pronome totalizzante che svuota l’“io” della sua interiorità e lo trasforma in un guscio trasparente.
La differenza tra le due opere rivela due modi di intendere l’essere umano: per Asimov l’identità è un elemento da integrare in una struttura più ampia che la esalta; per Gilligan è un nucleo fragile da difendere, pena la dissoluzione di tutto ciò che rende la coscienza autentica. In fondo, il confronto ci conduce a un interrogativo antico come la filosofia stessa: la felicità è un valore se non nasce dalla libertà? E la libertà può sopravvivere senza la possibilità del dolore, del dubbio, del conflitto interiore?
Il fascino inquietante di Pluribus deriva proprio da questa tensione, da ciò che ci obbliga a considerare: che una società senza sofferenza potrebbe essere una società senza anima. Foundation, al contrario, ci invita a immaginare la possibilità di una coscienza collettiva che non cancella l’individuo ma lo trascende, come se l’umanità avesse finalmente imparato a pensare insieme senza perdere se stessa. Tra queste due visioni opposte si apre un varco in cui si riflette l’intera storia dell’uomo: il desiderio di unità e la paura della dissoluzione, la sete di armonia e l’istinto di conservare un’identità irriducibile. La fantascienza, nel farci contemplare il destino di interi mondi, non fa che riportarci sempre allo stesso punto: chi siamo quando non siamo soli, e cosa siamo disposti a sacrificare per non esserlo più.