Ci sono cognomi che nell’universo di Stephen King risuonano come campane a morto. Bowers è uno di questi.
Quando nel secondo episodio di It: Welcome to Derry compare il capo della polizia Clint Bowers, interpretato da Peter Outerbridge, i fan più attenti del maestro dell’horror hanno immediatamente drizzato le antenne. Quel cognome non è casuale, non in una serie che ha fatto degli Easter Egg e dei riferimenti intergenerazionali la sua firma distintiva. È un filo rosso che collega il 1962 della serie prequel al 1988-1989 dei film It, un’eredità di violenza che attraversa decenni come un virus trasmesso di padre in figlio.
Clint Bowers fa la sua prima apparizione seduto in un bar, cercando di annegare nell’alcol i ricordi degli orribili omicidi avvenuti alla fine del primo episodio. Ma la sua tregua dura poco: alcuni cittadini razzisti lo avvicinano e lo pressano affinché arresti Hank Grogan, interpretato da Stephen Rider. In quella scena si condensa tutta la tragedia del personaggio: un uomo debole, più vittima che carnefice, che cede all’intimidazione nonostante i suoi timidi tentativi di difendere l’innocente. Eppure quel cognome, Bowers, porta con sé il peso di una delle figure più terrificanti della mitologia di King.
Henry Bowers è il bullo sociopatico che tormenta il Club dei Perdenti in It, un adolescente capace di incidere il proprio nome nella carne di Ben Hanscom, uccidere il cane di Mike Hanlon e mandare Eddie Kaspbrak in ospedale. E tutto questo prima ancora che Pennywise inizi a manipolarlo, trasformandolo in uno strumento ancora più letale. Con Welcome to Derry ambientato nel 1962 e i film di Andy Muschietti nel 1988-1989, la matematica generazionale è cristallina: Clint Bowers è con ogni probabilità il nonno di Henry e il padre di Oscar “Butch” Bowers, il brutale padre alcolizzato che nei film plasma il figlio a colpi di abusi e crudeltà.
Il collegamento è rafforzato da un dettaglio narrativo elegante: Mike Hanlon ha all’incirca la stessa età di Henry Bowers in It, e il nonno di Mike, Leroy Hanlon interpretato da Jovan Adepo in Welcome to Derry, ha pressappoco la stessa età di Clint. Due famiglie, due lignaggi paralleli che si intrecciano in una danza di conflitto destinata a ripetersi attraverso le generazioni. Nei romanzi di King, anche se non menzionato nei film, Butch Bowers ha una faida con Will Hanlon, il padre di Mike, interpretato da Blake Cameron James nella serie HBO. In Welcome to Derry vediamo Charlotte Hanlon, la madre di Will interpretata da Taylour Paige, opporsi fermamente a Clint e alla sua illegittima incarcerazione di Hank.
È qui che la serie costruisce le fondamenta di un odio generazionale. Forse Clint trasmetterà il suo risentimento verso Charlotte e, di conseguenza, verso tutta la famiglia Hanlon a suo figlio Butch. E Butch, cresciuto nel rancore paterno e nell’alcol, lo passerà a Henry insieme alle botte e all’odio. Una catena di abusi che parte da un uomo debole che non ha avuto il coraggio di fare la cosa giusta.
Ciò che rende Clint Bowers particolarmente interessante è proprio la sua natura antitetica rispetto ai suoi discendenti. Non è un bullo, almeno non nel senso tradizionale. È piuttosto lui a essere vittima di bullismo, schiacciato dalle pressioni della comunità razzista che dovrebbe servire. La sua difesa di Hank è debole, quasi imbarazzata, e capitola rapidamente di fronte all’intimidazione. Ma è proprio questa debolezza, combinata con le conseguenze delle sue azioni sbagliate, che potrebbe spingere suo figlio e suo nipote a ipercompensare nel modo più devastante possibile.
Welcome to Derry, debuttata il 26 ottobre 2025 su HBO, è un’operazione di worldbuilding che va oltre il semplice prequel. Showrunner Andy Muschietti, che ha già diretto i due film di It del 2017 e 2019, sta tessendo una mitologia complessa dove ogni dettaglio conta, dove ogni personaggio secondario può nascondere connessioni profonde con eventi futuri. La serie non si limita a raccontare cosa accadeva a Derry nel 1962, ma spiega perché certi orrori si ripetono ciclicamente, generazione dopo generazione.
Il ritratto della famiglia Bowers che emerge è quello di una dinastia di dolore autoinflitta. Clint, troppo debole per resistere al male, compie scelte che lo perseguiteranno. Butch, cresciuto nell’ombra della vergogna paterna, diventa un alcolizzato violento e, nei film, anche lui poliziotto, forse nel disperato tentativo di redimere il nome di famiglia. Henry, infine, rompe completamente, diventando il mostro che i suoi antenati hanno inconsapevolmente creato, prima di essere ulteriormente corrotto da Pennywise.
Nella lunga galleria dei bulli nell’universo di Stephen King, Henry Bowers occupa un posto d’onore tra i più spietati. Ma Welcome to Derry ci ricorda che anche i mostri hanno origini, che la violenza è spesso il frutto avvelenato di semi piantati decenni prima. Clint Bowers non è Henry, ma le sue azioni codarde nel 1962 creano le condizioni affinché Henry possa esistere nel 1988. È una riflessione amara sulla natura ciclica del male, su come la paura e la debolezza possano trasformarsi in crudeltà attraverso le generazioni.
Per gli spettatori che conoscono i film e i romanzi di King, la presenza di Clint Bowers in Welcome to Derry aggiunge uno strato di tragedia inevitabile. Sappiamo già come finirà questa storia, conosciamo il mostro che verrà. Ma vedere le radici di quell’orrore, capire che anche i peggiori bulli sono stati un tempo figli di uomini deboli e spaventati, rende l’intera saga ancora più inquietante. Perché alla fine, a Derry, gli orrori più duraturi non sono quelli generati da un clown danzante che si nutre di paura, ma quelli che gli esseri umani si infliggono l’un l’altro, generazione dopo generazione, in un ciclo apparentemente impossibile da spezzare.