Jim Carrey e The Mask rappresentano uno dei binomi più iconici degli anni ’90: nel 1994 l’attore canadese conquistò il pubblico interpretando Stanley Ipkiss, un timido bancario che, grazie a una maschera magica, si trasformava in una creatura esagerata, folle e cartoonesca.

Quel ruolo lanciò definitivamente la carriera di Carrey nel grande cinema hollywoodiano, ma da allora una domanda accompagna i fan: perché non è mai stato prodotto un vero sequel con lui? La risposta, come spesso accade, è più complessa di quanto possa sembrare. Negli anni Carrey ha dichiarato più volte che non ha nulla contro i sequel di per sé, ma non è interessato a ripetere un successo solo per ragioni commerciali. Per lui la continuità creativa è tutto: tornerebbe a interpretare Stanley Ipkiss solo se arrivasse “l’idea giusta”, un concetto che ha ripetuto in molte interviste. Non si tratta di soldi, come lui stesso ha specificato, ma di visione.

Ha persino scherzato sul fatto di essere “un tipo che non accetta soldi”, sottolineando però che la sua priorità è sempre stata la qualità del progetto e la presenza di un regista capace di proporre qualcosa di sorprendente, folle, originale, degno dell’anarchia visiva del primo film. Questa scelta artistica è diventata ancora più netta dopo l’uscita di Son of the Mask nel 2005, un sequel privo di Carrey e Cameron Diaz, nato dopo che l’attore aveva rifiutato una proposta milionaria per tornare nel ruolo. Il film, accolto tiepidamente dal pubblico e stroncato dalla critica, ha dimostrato quanto fosse difficile replicare l’alchimia unica del primo capitolo: senza Carrey, senza il suo ritmo comico iper-cinetico e senza una direzione creativa audace, l’intero mondo narrativo della maschera sembrava perdere vitalità. Quel flop ha probabilmente rafforzato la convinzione dell’attore che un sequel non possa essere affrontato con leggerezza o come semplice operazione nostalgica.

Negli ultimi anni, nonostante un periodo di “power-resting” — come lui stesso ha definito il suo rallentamento professionale — Carrey ha però confermato di essere ancora aperto a un possibile ritorno, purché ci sia una proposta creativa all’altezza. Ha spiegato che prenderebbe in considerazione un sequel solo se fosse guidato da un regista visionario, qualcuno capace di trasformare The Mask in qualcosa di nuovo e non in una copia dell’originale. Anche Cameron Diaz, che interpretava Tina Carlyle nel film del 1994, ha espresso interesse nel ritornare a patto che Carrey sia coinvolto, dimostrando che la coppia cinematografica è ancora legata da un forte rispetto artistico reciproco. Gli ostacoli principali, però, rimangono evidenti. Le aspettative del pubblico sono altissime: The Mask non è solo un film di successo, ma un pezzo di cultura pop, un simbolo di un’epoca e della comicità trasformista di Carrey. Qualunque sequel dovrebbe confrontarsi con questo enorme lascito e reinventarlo senza tradirlo. Inoltre, il fallimento del film del 2005 ha probabilmente reso gli studios più cauti nel finanziare un progetto costoso e rischioso senza la certezza del coinvolgimento di Carrey.

Non va dimenticato nemmeno il problema della direzione artistica: trovare un regista in grado di mescolare comicità slapstick, CGI esagerata e sensibilità contemporanea è una sfida non da poco. Tuttavia, se qualcuno riuscisse a proporre un’idea davvero innovativa — magari esplorando un Ipkiss più adulto, maturo, alle prese con nuovi problemi, o adottando un approccio più sperimentale e vicino alle origini fumettistiche, molto più oscure — il ritorno di Carrey potrebbe diventare una realtà. Per ora, però, la situazione rimane sospesa: il desiderio dei fan è forte, l’apertura di Carrey esiste, e anche Diaz sarebbe pronta a unirsi al progetto, ma manca ancora l’ingrediente fondamentale, quell’idea geniale che potrebbe trasformare The Mask da reliquia di culto a franchise rinato. Fino a quando non arriverà la scintilla giusta, il sequel resterà un sogno, affascinante quanto irraggiungibile.

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