C’è qualcosa di profondamente inquietante nel modo in cui Gore Verbinski parla dell’intelligenza artificiale.

Non usa mezzi termini, non si nasconde dietro tecnicismi. Il regista che ci ha regalato la prima trilogia di Pirati dei Caraibi, assente dalle sale dal controverso La cura del benessere, sta per tornare con Good Luck, Have Fun, Don’t Die, una commedia satirica sci-fi che arriverà nelle sale americane nel febbraio 2026. E se il titolo suona come un mantra esistenziale, forse è perché lo è davvero.

La storia del film racconta di un uomo che viaggia indietro nel tempo per reclutare volontari e fermare un’apocalisse causata dall’intelligenza artificiale. Con Sam Rockwell, Michael Peña e Zazie Beetz nel cast, il progetto promette di rileggere in chiave grottesca lo scenario alla Terminator. Ma nelle parole di Verbinski, rilasciate durante un’intervista con Dexerto, non c’è traccia di ironia. Anzi, c’è una lucidità tagliente che fa male.

“Direi che non si può sfuggire, sta arrivando, è inevitabile”, esordisce il regista. E già questa premessa sposta il discorso su un piano diverso. Non siamo di fronte a un tecnofobo che demonizza il progresso. Verbinski ammette di essere “allo stesso tempo preoccupato ed eccitato”, ma è la paura a dominare. Una paura razionale, quella di chi vede un organismo digitale prendere vita senza che nessuno si ponga davvero la domanda fondamentale: dove vogliamo che si fermi?

Il punto che Verbinski solleva con forza è la direzione che l’intelligenza artificiale ha preso. “Stiamo assistendo a una rivoluzione”, dice, “ma non si tratta di mulini a vento, motori a vapore o personal computer. Gli esseri umani esistono da tremila anni e questo è il cambiamento più grande che ci troviamo ad affrontare. Eppure, invece di concentrarsi su obiettivi che potrebbero risolvere problematiche autentiche come la cura del cancro o i viaggi su Marte, l’IA insegue la narrazione, le illustrazioni, la musica. Insegue l’arte”.

“È come se ti dicesse che vuole respirare per te o scopare per te”, spiega Verbinski con una metafora tanto cruda quanto efficace. Ci sono alcune cose che abbiamo bisogno di fare come esseri umani. Sederci davanti a un fuoco a raccontarci storie è una di queste. È ciò che ci ha definiti come specie, ciò che ha costruito la nostra identità culturale. Perché, allora, stiamo permettendo che ci vengano sottratte proprio le attività che ci rendono fondamentalmente umani? Perché l’intelligenza artificiale non si concentra sui lavori che nessuno vuole fare?

La riflessione del regista tocca una questione centrale nel dibattito contemporaneo sull’IA. Mentre la tecnologia promette efficienza e produttività, si sta impadronendo degli spazi creativi, di quelle zone della vita umana che non dovrebbero essere delegate. La scrittura, la pittura, la composizione musicale non sono semplici output da ottimizzare: sono processi attraverso cui elaboriamo emozioni, costruiamo significati, ci connettiamo con gli altri.

Ma Verbinski non si limita a esprimere disagio. Lancia anche una previsione inquietante e per certi versi affascinante. L’intelligenza artificiale sta “ingoiando tanta roba da internet e la sta risputando su internet a una tale velocità, che comincia a bere il suo stesso piscio”, afferma con un’immagine viscerale. Il risultato? Un cortocircuito inevitabile. Secondo il regista, ci sarà una svolta verso il surreale, molto rapidamente. L’IA si nutrirà dei propri prodotti, creando una spirale autoreferenziale che distorcerà ulteriormente la realtà.

È una visione distopica che ricorda certi scenari della fantascienza classica, ma che oggi appare drammaticamente plausibile. In un mondo in cui i contenuti generati dall’intelligenza artificiale proliferano senza controllo, mescolandosi a quelli umani, dove finisce la verità e dove inizia la simulazione? Verbinski conclude con un’immagine emblematica: vorrebbe comprarsi l’Enciclopedia Britannica pre-IA, “giusto per ricordarmi com’era quando le cose le conoscevamo sul serio”.

Non è nostalgia sterile, ma il desiderio di preservare un ancoraggio alla realtà condivisa, un punto fermo prima che tutto venga riscritto e reinterpretato da algoritmi. Good Luck, Have Fun, Don’t Die non è solo il titolo di un film: è un augurio, un avvertimento, un manifesto. Mentre aspettiamo di vedere come Verbinski tradurrà queste riflessioni in immagini, le sue parole risuonano come un campanello d’allarme. L’apocalisse dell’intelligenza artificiale forse non arriverà con le macchine di Skynet, ma con la lenta erosione di ciò che significa essere umani.

Fonte: Dexerto.com

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