Ci sono momenti nella storia del cinema in cui un attore non interpreta semplicemente un personaggio, ma lo incarna con una tale intensità da farlo traboccare dallo schermo.
Russell Crowe nei panni di Hermann Göring, il secondo in comando del regime nazista, è uno di questi momenti. Non è solo la trasformazione fisica, è il modo in cui riempie l’inquadratura, come la sua presenza diventa opprimente, calcolata, terrificante nella sua lucidità. Nuremberg, il nuovo film diretto da James Vanderbilt, non è l’ennesimo dramma storico sui processi di Norimberga. È un’indagine psicologica che vi costringerà a guardare negli occhi il male e a chiedervi: cosa rende umano un mostro?
La trama si concentra su Douglas Kelley, lo psichiatra militare americano interpretato da Rami Malek, incaricato di valutare la salute mentale dei comandanti nazisti sopravvissuti alla guerra. Il suo compito è clinico, distaccato, professionale. Ma quando si trova faccia a faccia con Göring per centinaia di ore di interrogatori, qualcosa si incrina. Non è solo lo psichiatra che studia il paziente: è un gioco di specchi in cui il confine tra giustizia e fascinazione diventa pericolosamente sottile. Vanderbilt costruisce il film attorno a questo duello intellettuale, trasformando ogni scambio in una partita a scacchi dove la posta in gioco è la comprensione stessa della natura umana.
Il film dura quasi 150 minuti, eppure scorre con un ritmo cinematografico impressionante. Vanderbilt dimostra di saper bilanciare il peso della Storia con la necessità di mantenere vivo l’interesse narrativo. Ci sono persino momenti di umorismo inaspettato, smash-cut intelligenti che alleggeriscono la tensione senza mai sminuire la gravità degli eventi. Ma quando arriva il momento di mostrare le immagini dell’Olocausto durante il processo, il regista cambia registro completamente. La scena è trattata con una serietà reverenziale: la camera si muove tra i volti devastati nella sala del tribunale mentre le atrocità vengono proiettate per la prima volta. È il cuore pulsante di Nuremberg, il momento in cui il film smette di essere un thriller psicologico e diventa qualcosa di più profondo, un atto di testimonianza.
La performance di Crowe è una lezione di recitazione. Il suo Göring è una combinazione studiata di narcisismo, furia repressa e senso di superiorità morale che risulta disturbante proprio perché riconoscibile. Non è un cartone animato del male, è un essere umano convinto delle proprie ragioni, capace di manipolare, sedurre intellettualmente, resistere. Di fronte a lui, Malek costruisce un Kelley tormentato, sempre più vicino al baratro della comprensione empatica. È un dilemma etico che il film esplora senza dare risposte facili: studiare il male significa rischiare di esserne contaminati?
Il cast corale è uniformemente brillante. Michael Shannon interpreta il procuratore Robert Jackson con l’intensità che gli conosciamo, anche se in alcuni momenti il film cade nella tentazione di sottolineare troppo l’importanza di certi confronti con battute che spezzano il ritmo drammatico. Ma è Leo Woodall, nel ruolo del traduttore Howie Triest, a portare via il film con un monologo devastante che non lascerà nessuno indifferente. È uno di quei momenti cinematografici che restano impressi, una scarica emotiva che arriva quando meno te l’aspetti.
Nuremberg non è il primo film sui processi di Norimberga. Il capolavoro di Stanley Kramer del 1961, “Il processo di Norimberga”, resta un punto di riferimento inarrivabile. Ma Vanderbilt trova un angolo nuovo da cui raccontare quella storia: l’angolo della psicologia, dell’indagine su cosa renda possibile l’impensabile. È un film che parla al presente con una urgenza quasi fisica, un richiamo a non abbassare mai la guardia davanti al fascismo, a non dimenticare che gli uomini che commisero quelle atrocità erano esattamente questo: uomini.
Alla fine, Nuremberg riesce nella sua missione più ambiziosa: portare sullo schermo un momento storico di importanza capitale senza ridurlo a puro esercizio didattico. È cinema che informa, commuove, disturba. È un film che vi farà uscire dalla sala con domande scomode e nessuna risposta rassicurante. Ed è esattamente così che dovrebbe essere.