L’annuncio di Disney+ di aprire ai contenuti generati dall’intelligenza artificiale non è soltanto una novità tecnologica, ma rappresenta un vero e proprio terremoto culturale che rischia di cambiare per sempre il volto del cinema.
Bob Iger ha parlato di una trasformazione radicale, di un passaggio da spettatori a creatori, di un futuro in cui chiunque potrà generare clip con i personaggi Disney e condividerle all’interno della piattaforma. Ma dietro l’entusiasmo per questa democratizzazione apparente si nasconde un pericolo enorme: l’emorragia di posti di lavoro che potrebbe colpire l’intera industria cinematografica. Perché se l’AI diventa il nuovo motore creativo, che ne sarà delle migliaia di professionisti che oggi rendono possibile la realizzazione di un film o anche semplicemente di una clip?
La produzione cinematografica è infatti un mosaico di competenze, un intreccio di mestieri che vanno dall’autore al tecnico, dall’artista all’artigiano. Tutto comincia con lo sceneggiatore, che immagina e scrive la storia, e prosegue con il produttore, che coordina e finanzia il progetto. Il regista è la mente creativa che guida attori e troupe, mentre l’assistente alla regia e il segretario di edizione garantiscono che ogni dettaglio sia rispettato. Il direttore della fotografia plasma la luce e l’atmosfera, supportato da operatori di macchina e tecnici delle luci. Il suono è catturato dal fonico e dai microfonisti, poi reinventato dai sound designer. Gli attori, protagonisti visibili, sono affiancati da coach, stuntman e controfigure, mentre truccatori, parrucchieri, costumisti e sarti ne definiscono l’aspetto. Lo scenografo immagina gli ambienti, ma a costruirli sono falegnami, fabbri, pittori e decoratori. Gli effetti speciali coinvolgono modellisti, meccanici, pirotecnici e artisti digitali. Location manager, direttori di produzione e runner gestiscono la logistica. Infine, in post-produzione, montatori, colorist, compositori ed editor del suono completano l’opera.
Ogni film è dunque il risultato di un lavoro corale che coinvolge centinaia di figure professionali. Eppure, la prospettiva di un futuro in cui l’AI genera contenuti brevi e personalizzati rischia di rendere superflue molte di queste competenze. Se un algoritmo può scrivere una storia, che ne sarà dello sceneggiatore? Se può creare ambienti digitali, che ne sarà di scenografi, falegnami e pittori? Se può generare volti e voci sintetiche, che ne sarà di attori, truccatori e costumisti? Se può montare automaticamente clip e suoni, che ne sarà di montatori e fonici? La lista è lunga e inquietante.
Disney parla di un ecosistema controllato e monetizzato, dove i fan possono creare contenuti senza violare il copyright. Ma questo ecosistema rischia di sostituire il cinema con un flusso infinito di frammenti, clip brevi e personalizzati, consumati e dimenticati in pochi secondi. In questo scenario, la sala cinematografica diventa marginale, il film come opera pensata per durare e incidere nella memoria collettiva rischia di dissolversi, e con esso migliaia di posti di lavoro. Non si tratta di un’evoluzione, ma di una sostituzione: l’AI non arricchisce il cinema, lo svuota, lo riduce a contenuto effimero e ingloba la creatività in un modello di business che premia l’algoritmo e non l’autore.
La storia del cinema è fatta di grandi opere che hanno segnato epoche e generazioni, ma anche di mestieri invisibili che hanno reso possibile ogni fotogramma. Se questa rivoluzione prende piede, rischiamo di assistere non solo alla morte del cinema come arte e rito collettivo, ma anche alla scomparsa di un intero mondo di professioni: sceneggiatori, registi, attori, tecnici, artigiani, montatori, costumisti, scenografi. Un patrimonio di competenze e di cultura che non può essere sostituito da un algoritmo. L’emorragia di posti di lavoro sarebbe devastante, e con essa la perdita di un sapere che ha costruito l’immaginario di generazioni.
Il cinema non è solo intrattenimento: è industria, è arte, è comunità. Ridurlo a un flusso di clip generate dall’AI significa sacrificare tutto questo sull’altare della personalizzazione e dell’engagement. Se questa è la direzione, il cinema come lo abbiamo conosciuto – fatto di sale, di autori, di opere memorabili e di migliaia di professionisti che lavorano dietro le quinte – rischia davvero di morire, lasciando il posto a un intrattenimento liquido, veloce e privo di radici. L’unica cosa “positiva” (si fa per dire) è che con un prodotto fatto dall’intelligenza artificiale non avremo più dei titoli di coda “chilometrici”.