C’è un momento nella storia in cui il mondo cambia, ma le persone continuano a vivere come se nulla stesse accadendo.

Dicembre 1989 in Romania è esattamente questo: un popolo sull’orlo della rivoluzione che guarda altrove, che accende la televisione e trova solo propaganda, che sussurra il nome di Timișoara senza sapere davvero cosa stia succedendo nelle piazze. È in questo limbo esistenziale che si muove L’anno nuovo che non arriva, opera prima di Bogdan Mureșanu che ha conquistato il premio come miglior film nella sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia 81.

Il titolo è già un manifesto poetico: l’anno nuovo che non arriva. Non è solo una questione di calendario. È la metafora perfetta di un paese intero che aspetta un cambiamento senza avere il coraggio di nominarlo, figuriamoci di abbracciarlo. Siamo al 20 dicembre 1989, cinque giorni prima del Natale che vedrà Nicolae Ceaușescu e sua moglie giustiziati dopo anni di terrore. Ma in quei giorni sospesi, la gente comune vive in una bolla di inconsapevolezza forzata, dove la paranoia del regime si mescola a una feroce ironia popolare.

Mureșanu costruisce un mosaico narrativo che espande il suo cortometraggio del 2018 The Christmas Gift, intrecciando destini apparentemente lontani ma legati da un filo invisibile di paura e speranza repressa. C’è una protagonista di uno show televisivo che fugge prima di Capodanno, costringendo un regista a trovare una sostituta d’emergenza. L’attrice teatrale scelta per rimpiazzarla vive la sua personale crisi: non riesce a contattare il suo ex fidanzato, intrappolato proprio a Timișoara, epicentro della repressione violenta che la televisione di stato sta censurando.

Poi c’è lo studente, figlio del regista, che pianifica una fuga disperata attraverso il Danubio, nuotando verso la Jugoslavia e verso una libertà che sembra più vicina dell’anno nuovo. A sorvegliarlo, un ufficiale della polizia segreta che incarna il paradosso del regime: mentre spia potenziali dissidenti, deve occuparsi di sua madre, sfrattata da una casa destinata alla demolizione e costretta in un appartamento che detesta. E poi l’operaio del trasloco, travolto dal panico quando scopre che suo figlio ha scritto una lettera a Babbo Natale rivelando che papà vorrebbe la morte di Ceaușescu. In quella Romania, anche i pensieri dei bambini potevano diventare prove d’accusa.

La forza del film risiede nella sua capacità di bilanciare registri opposti senza mai perdere il controllo. L’anno nuovo che non arriva oscilla tra tragedia e commedia nera, tra il furore della storia e il folclore quotidiano, tra la farsa grottesca e l’analisi psichiatrica di un popolo. Mureșanu non giudica i suoi personaggi: li osserva con tenerezza e lucidità, restituendo il ritratto di una nazione incapace di assumersi la responsabilità del proprio futuro perché troppo abituata a subire il presente.

Visivamente, il film è un’immersione totale in quel tempo sospeso. Il formato 4:3 stringe lo sguardo, come se anche l’immagine fosse oppressa dai confini del regime. La fotografia di Biró Boróka lavora su cromatismi cupi, privi di bagliori, dove anche la luce sembra censurata. L’uso dell’archivio storico è sapiente e spudorato: le immagini reali della Romania di Ceaușescu si fondono con la finzione, creando un cortocircuito emotivo potente. La satira diventa così la chiave d’accesso privilegiata per comprendere un sentimento popolare che altrimenti resterebbe indecifrabile.

Ma è nel finale che Mureșanu gioca la sua carta più audace. Il crescendo narrativo esplode letteralmente sulle note del Boléro di Ravel, quella composizione che costruisce la tensione attraverso la ripetizione ossessiva fino al collasso. Qui diventa la colonna sonora perfetta per il crollo di un sistema che sembrava eterno, per le cose che cadono una dopo l’altra in un effetto domino inarrestabile. È un finale che non lascia respiro, che trasforma l’attesa opprimente in liberazione caotica.

Nel suo saggio Bucarest. Polvere e sangue, la scrittrice polacca Margo Rejmer esplora una capitale ancora condannata a convivere con l’orrore della nostalgia per il regime. Il suo punto di vista esterno le permette di cogliere quel carattere nazionale dove paranoia e ironia feroce convivono come fratelli siamesi. È lo stesso spirito che anima il film di Mureșanu: uno sguardo che sa essere al tempo stesso compassionevole e impietoso, capace di ridere e di rabbrividire nella stessa inquadratura.

L’anno nuovo che non arriva non è solo un film storico sulla fine di una dittatura. È un’opera che parla di tutti quei momenti in cui il cambiamento è già in atto ma nessuno vuole vederlo, in cui il futuro bussa alla porta ma abbiamo troppa paura per aprire. La Romania del dicembre 1989 diventa così uno specchio universale, un ritratto di come gli esseri umani si comportano quando la storia accelera e loro vorrebbero solo che tutto restasse com’è, anche se com’è fa schifo.

Il riconoscimento a Venezia 81 premia un’opera prima selvaggia e rocambolesca, che sa utilizzare il voltaggio surreale e la precisione chirurgica per raccontare un popolo che ha aspettato troppo a lungo. Un film che ci ricorda che a volte l’anno nuovo non arriva perché siamo noi a non volerlo far entrare, finché non ci accorgiamo che ha già sfondato la porta.

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