C’è un momento, verso la fine della terza stagione di Star Wars: Visions, in cui tutto quello che credi di sapere sulla galassia lontana lontana viene polverizzato.
È l’episodio nove, intitolato “Black”, e per tredici minuti vertiginosi ti ritrovi dentro la mente di uno stormtrooper nei suoi ultimi istanti di vita. Non è una storia nel senso tradizionale del termine. È un trip psichedelico, un caleidoscopio visivo animato da David Production che frantuma ogni convenzione narrativa del franchise. È bizzarro, disturbante, ipnotico. Ed è esattamente ciò di cui Star Wars ha bisogno per continuare a respirare.
Perché Star Wars: Visions non è come le altre serie del franchise. Non insegue la continuity, non costruisce ponti verso l’universo canonico, non si preoccupa di spiegare ogni dettaglio con la reverenza di un archivista Jedi. Visions è pura, sfrenata creatività. È un esperimento di libertà artistica in cui studi di animazione provenienti da tutto il mondo ricevono carta bianca per reinterpretare Star Wars secondo la propria visione. E la terza stagione dimostra che questa formula, lontana dall’essere esaurita, continua a produrre risultati straordinari.
La stagione si apre con “The Duel: Playback”, sequel diretto del primo episodio della serie originale. Kamikaze Douga e Anima riportano in scena l’iconico ex Sith cacciatore di Sith, immergendolo nuovamente in quella palette cromatica di grigi e neri squarciata dai colori abbaglianti delle spade laser. Le influenze giapponesi permeano ogni frame: dalle coreografie di combattimento alla scelta delle ambientazioni, tutto respira l’estetica del cinema di samurai. È un ritorno che funziona, che riconferma l’identità visiva unica di quella che fu una delle gemme della prima stagione.
Ma è con il terzo episodio che Visions raggiunge il suo apice narrativo. “The Ninth Jedi: Child of Hope” riprende la storia di Kara, la giovane protagonista di uno degli episodi più amati della stagione inaugurale. Bloccata su una nave abbandonata, inseguita dai suoi nemici, Kara deve fare affidamento sul suo addestramento e su un alleato inaspettato: Teto, un droide doppiato da Freddie Highmore che riesce nell’impresa di strappare lacrime vere. L’episodio funziona su più livelli: come continuazione di una storia già apprezzata, come backdoor pilot per un potenziale show dedicato alla Nona Jedi, ma soprattutto come dimostrazione di quanto possa essere coinvolgente Star Wars quando si concede di esplorare angoli inesplorati della galassia.
La coerenza qualitativa è uno dei punti di forza di questa terza stagione. Non esistono episodi oggettivamente brutti, anche se alcuni funzionano meglio di altri. WIT Studios firma “The Bounty Hunter”, una storia semplice e diretta che guadagna punti grazie a un droide dalla doppia personalità: IV-A4 passa dalla comicità disarmante alla violenza assassina in un battito di ciglia, regalando alcuni dei momenti più memorabili della stagione. È il tipo di creatività che Visions consente, nascondendo idee rivoluzionarie dietro archetipi familiari.
Anche Production I.G contribuisce con “The Song of Four Wings”, episodio che sfrutta l’adorabile presenza dei Woopas e di un droide astromeccanico capace di trasformarsi in qualcosa di mai visto prima in Star Wars. La dinamica “lupo solitario e cucciolo” funziona sempre, e qui viene eseguita con la grazia visiva che ci si aspetta da uno degli studi di animazione più prestigiosi del Giappone. La sequenza d’azione con la trasformazione mecha è un momento di pura follia creativa, il tipo di scena che solo un’antologia non canonica può permettersi.
“Yuko’s Treasure”, quinto episodio della stagione, mette al centro BILY, un droide dall’aspetto di orso gigante doppiato da Harvey Guillén. La sua missione di proteggere la piccola Yuko è commovente, ma quando si trasforma temporaneamente in “Darth BILY”, l’episodio trova un equilibrio perfetto tra tenerezza e terrore. È Star Wars che riscopre il senso di avventura infantile, quello stesso spirito che animava i primi film della saga originale.

Il sesto episodio, “The Lost Ones”, riprende la storia di F, già apparsa nella prima stagione. Ambientato su un pianeta morente dove i cristalli di carbonite emettono gas che pietrificano gli esseri viventi, l’episodio costruisce un’atmosfera poetica e tragica. Il duello finale tra F e il suo ex maestro è carico di emozione, un confronto che parla di destino, tradimento e redenzione. È la dimostrazione che la continuità, quando gestita con cura, può arricchire l’esperienza narrativa senza appesantirla.
“The Smuggler”, settimo episodio, è probabilmente quello più vicino allo spirito della trilogia originale. Un principe in fuga, un contrabbandiere indebitato, l’Impero sulle loro tracce: è una formula classica eseguita con maestria. Non sorprende, non stravolge, ma funziona. Per alcuni sarà l’episodio preferito proprio per questa fedeltà alle radici, per altri risulterà il meno innovativo. Entrambe le letture sono valide.
Gli ultimi due episodi rappresentano il vertice dell’audacia visiva della stagione. “The Bird of Paradise”, ottavo episodio realizzato da Polygon Pictures, segue una Padawan accecata in battaglia che deve fare affidamento esclusivamente sulla Forza per sopravvivere. L’animazione 3D è spettacolare, soprattutto nelle sequenze che visualizzano la Forza stessa, anche se i personaggi umani appaiono occasionalmente rigidi ed espressivamente limitati. Il tema della cecità come porta verso una comprensione più profonda della Forza è affascinante, anche se lo sviluppo dei personaggi risulta forzato.
E poi c’è “Black”. Il nono episodio è un’anomalia, un esperimento radicale che ridefinisce i confini di ciò che può essere Star Wars. Per tredici minuti siamo trascinati in un flusso di coscienza visivo, un viaggio allucinatorio attraverso i pensieri frammentati di uno stormtrooper morente. David Production crea un’esperienza sensoriale che sfida qualsiasi tentativo di categorizzazione. Non è facile da descrivere, non è facile da digerire, ma è necessario. Star Wars ha bisogno di episodi come questo, che spingono il franchise oltre i confini della zona di comfort, che osano essere incomprensibili pur di essere autentici nella loro visione artistica.
Sul fronte tecnico, praticamente ogni episodio della stagione raggiunge livelli di eccellenza visiva. Ogni studio di animazione porta il proprio stile distintivo, creando un mosaico di interpretazioni che dimostra quanto sia versatile e adattabile l’universo di Star Wars. Solo il sesto episodio appare leggermente più conservativo dal punto di vista dell’animazione, ma anche in quel caso la qualità generale rimane alta.
Star Wars: Visions continua a essere una serie divisiva. Per chi cerca connessioni canoniche, sviluppi narrativi legati all’universo espanso, personaggi che riappariranno in altre produzioni, questa antologia rappresenta un vicolo cieco. Ma per chi è disposto a lasciarsi trasportare, per chi vede il valore nell’esplorazione artistica fine a se stessa, Visions è un tesoro. È la prova che Star Wars può essere molte cose diverse, può parlare linguaggi visivi radicalmente differenti, può raccontare storie che non hanno bisogno di inserirsi in una timeline più ampia per avere significato.
La terza stagione conferma che Lucasfilm ha capito la formula vincente: dare libertà creativa totale a studi di animazione talentuosi, rimuovere le restrizioni del canone, e lasciare che l’amore per Star Wars si esprima attraverso prospettive culturali ed estetiche diverse. Il risultato è una collezione di episodi che oscillano tra il buono e l’eccellente, con alcuni momenti di vera grandezza visionaria. Non ci sono episodi brutti, solo gradi diversi di successo nell’ambizione narrativa e visiva.
In un’epoca in cui Star Wars cerca costantemente di bilanciare innovazione e tradizione, di soddisfare contemporaneamente i fan della prima ora e le nuove generazioni, Visions rappresenta uno spazio di libertà. Non deve spiegare come si collega a The Mandalorian, non deve preparare il terreno per il prossimo film, non deve rispettare la continuity stabilita in quarant’anni di espansione dell’universo. Deve solo essere bella, coraggiosa, emozionante. E questa terza stagione raggiunge tutti e tre gli obiettivi, confermandosi come una delle esperienze più creative che il franchise abbia da offrire.
