Ci sono film che nascono con un’identità precisa e poi ci sono quelli che Edgar Wright decide di fare. The Running Man appartiene alla seconda categoria, quella delle opere stratificate che non si accontentano di una sola anima.

Quasi quarant’anni dopo L’implacabile, il kitsch action movie con Arnold Schwarzenegger che tradiva allegramente lo spirito del romanzo, Wright e lo sceneggiatore Michael Bacall riportano sul grande schermo “L’uomo in fuga” di Stephen King, ma lo fanno con un approccio che sorprende: creano tre film diversi nello stesso corpo narrativo, ognuno perfettamente riconoscibile, tutti ugualmente efficaci.

Il primo film è un omaggio dichiarato e affettuoso a Schwarzenegger e al lungometraggio diretto da Paul Michael Glaser nel 1988. Wright non nasconde di averlo amato in gioventù: i nuovi dollari dello show, il logo iconico, l’estetica pop e sgargiante di quel decennio sono lì, integrati con la reverenza di chi sa che certi ricordi d’infanzia vanno onorati, non cancellati. Il secondo è la trasposizione più fedele al romanzo di Richard Bachmann, lo pseudonimo dietro cui King si nascondeva nel 1983 quando scrisse questa distopia rabbiosa e profetica. Il terzo, quello che domina su tutto, è puro Edgar Wright: un’opera che porta la firma inconfondibile di uno dei registi più versatili e cinefili in circolazione.

Wright è un musicofilo quanto un film buff. Sa che le immagini hanno bisogno della colonna sonora giusta per creare il mood perfetto, e in The Running Man costruisce una compilation da ascoltare in loop, dove ogni canzone amplifica l’azione sullo schermo. Il risultato è un film che scorre via con una fluidità disarmante: le sue 2 ore e 19 minuti sembrano molto meno, perché il ritmo non cede mai, l’ironia si intreccia con la violenza e lo spettatore viene trascinato in un vortice che non concede un attimo di respiro.

Ma partiamo dall’inizio. “L’uomo in fuga” è uno dei romanzi migliori di Stephen King? La risposta onesta è no. Scritto di getto in una settimana, è il prodotto grezzo di uno scrittore giovane, pieno di rabbia e voglia di rivincita. Non ha la tensione de “La lunga marcia” né la profondità delle sue opere più celebri. Eppure la sua rilevanza è drammaticamente attuale, e Wright lo capisce meglio di chiunque altro. Il film amplifica ciò che nel libro resta sullo sfondo: una società americana divisa tra ricchi e reietti, dove la televisione ha fatto il lavaggio del cervello alle masse, la censura è pane quotidiano e chi non può permettersi le medicine muore nell’indifferenza generale.

Nel romanzo, l’azione si svolge profeticamente nel 2025. Il film non indica date, ma non ne ha bisogno: i parallelismi con la realtà odierna sono fin troppo evidenti. Il Ben Richards di King è un giovane tubercolotico, disoccupato perché ribelle, con una moglie costretta a prostituirsi per pagare le medicine alla figlia malata. Un antieroe improbabile che nel finale si sacrifica come Sansone, portando con sé i filistei del Network che controlla i reality estremi.

Wright arricchisce questa traccia dandole forma, colore e corpo. I Cacciatori, appena accennati nel romanzo, diventano figure concrete e minacciose. Gli altri giochi del Network prendono vita sullo schermo. Il personaggio antisistema interpretato da Michael Cera dissemina trappole degne di Mamma ho perso l’aereo. È il merito principale del regista: aver costruito un mondo che King non descrive con la sua consueta meticolosità, perché troppo preso dalla rabbia del momento.

Glen Powell è l’action hero 2.0 perfetto per questa versione. Muscoloso ma credibile, con la mascella forte e il physique du role giusto, porta sulle spalle un personaggio disperato che ha una famiglia da proteggere. Attorno a lui ruota un cast solido: Josh Brolin nel ruolo del creatore dei giochi Dan Killian, un carismatico Colman Domingo nei panni dell’MC Johnny B., un viscido Lee Pace, un Michael Cera divertito e irriconoscibile, William H. Macy in un cammeo rapido ma efficace.

Wright sa passare dal fumetto all’horror, dalla commedia all’action con una disinvoltura che pochi registi possiedono. The Running Man diverte, spiazza, esalta nei suoi momenti migliori. È un film che parla a chi ha amato L’implacabile senza dimenticare chi cerca qualcosa di più sostanzioso. È cinema che si nutre di cinema, musica che dialoga con le immagini, intelligenza che non si prende troppo sul serio ma che sa esattamente cosa sta facendo.

In un’epoca in cui i reality show spingono sempre più in là i confini dell’umano e la distopia sembra cronaca quotidiana, questo The Running Man arriva con il tempismo perfetto. Non è il miglior film di Wright, ma è sicuramente uno dei più necessari. E in una settimana in cui il mondo sembra aver fatto un passo indietro verso gli incubi di King, questa corsa contro il tempo assume un sapore ancora più amaro e profetico.

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