Ci vuole un coraggio notevole per guardare il mondo nel 2025 e chiedersi: “E se la cosa peggiore non fosse il caos, ma un’armonia forzata dove tutti vanno d’accordo?”

Vince Gilligan, l’uomo che ha trascorso due decenni immerso nelle tenebre morali di Breaking Bad e Better Call Saul, ha fatto esattamente questo. Con Pluribus, la sua nuova serie disponibile su Apple TV+, il creatore televisivo più celebrato del secolo torna con un’opera che è tutto tranne che una pausa leggera dai suoi drammi criminali. È piuttosto un’interrogazione feroce sulla natura dell’umanità, mascherata da fantascienza.

La premessa sembra uscita da un episodio di The Twilight Zone: un virus alieno si diffonde sul pianeta, trasformando praticamente ogni essere umano in una creatura perennemente felice e serena. Non si tratta solo di un cambiamento emotivo. Le menti si fondono in un collettivo globale dove pensieri, ricordi e conoscenze diventano proprietà comune. Le persone non dicono più “io”, ma si riferiscono a se stesse come “questo individuo”. La pace mondiale è finalmente raggiunta. Le guerre cessano. La violenza scompare. Il mondo diventa un sorriso collettivo.

Ma c’è un problema. Si chiama Carol Sturka.

Interpretata dalla straordinaria Rhea Seehorn, già Kim Wexler in Better Call Saul, Carol è una scrittrice di romanzi fantasy romantici di enorme successo, ricca e adorata da centinaia di migliaia di fan. È anche profondamente, visceralmente infelice. Una misantropa che considera i suoi lettori “un branco di idioti” e che disprezza la superficialità dei propri romanzi best-seller come Bloodsong of Wycaro. Carol è sarcastica, cinica, tagliente. E, soprattutto, è immune al virus. L’unica persona negli Stati Uniti, forse una delle poche al mondo, a non essere stata contagiata dalla beatitudine universale.

Il titolo stesso, stilizzato come Plur1bus sullo schermo, richiama il motto non ufficiale degli Stati Uniti, “E pluribus unum” – da molti, uno. Ma qui l’unità non è quella democratica dei padri fondatori. È quella totalitaria di una mente alveare che cancella ogni differenza, ogni dissenso, ogni individualità. E Carol, in questo scenario da incubo travestito da utopia, diventa l’ultima resistente involontaria.

Gilligan, che ha lavorato come sceneggiatore per The X-Files prima di creare Breaking Bad, torna alle sue radici fantascientifiche ma con una consapevolezza meta-testuale che rende Pluribus ben più di un semplice thriller alieno. “Abbiamo tutti visto questo film e sappiamo che non finisce bene,” dice Carol a un certo punto. E ha ragione. La serie è intrisa di riferimenti a classici del genere: L’invasione degli ultracorpi, 1984 di Orwell, The Leftovers, persino elementi di The Good Place e WALL-E. Ma Gilligan non si limita a omaggiare. Usa questi archetipi per costruire qualcosa di profondamente personale e attuale.

La performance di Seehorn è monumentale. Carol è una figura che porta sulle spalle l’intero peso narrativo dello show, spesso isolata anche quando circondata da persone. La sua rabbia, il suo cinismo, la sua testardaggine non sono difetti: sono l’essenza della sua umanità. E mentre l’alveare cerca disperatamente di “curarla” dalla sua immunità, Carol combatte per mantenere la propria identità. “Vogliamo solo aiutarti, Carol,” ripetono le masse sorridenti, in un ritornello che diventa sempre più sinistro. “Non è un’invasione aliena,” le assicura il nuovo presidente degli Stati Uniti in un messaggio televisivo rivolto solo a lei. “E un cazzo!” urla Carol, ed è impossibile non essere d’accordo.

Pluribus funziona su molteplici livelli. È un ritratto della condizione femminile di mezza età, dove una donna viene costantemente invitata a reprimere la propria rabbia, a negare i propri istinti, a riformulare le proprie esperienze per compiacere gli altri. Carol parla e non viene ascoltata. Ripete se stessa e non viene creduta. Alza la voce e le viene chiesto di comportarsi meglio. È anche un’allegoria delle relazioni abusive, dove il controllo viene mascherato da cura e l’amore diventa un meccanismo di coercizione.

Ma è soprattutto un’indagine filosofica sul prezzo della pace. Quando Carol, sfruttando la direttiva primaria dell’alveare di renderla felice, chiede di incontrare altri immuni di lingua inglese, si trova di fronte a una mezza dozzina di persone che non condividono la sua rabbia. Alcuni godono della vita da rarità coccolate. Altri desiderano ardentemente ricongiungersi con le loro famiglie senza il peso dell’individualità. Carol non riesce a far loro comprendere il problema. E forse il problema è solo suo?

La serie pone domande enormi: quali diritti consideriamo inalienabili? Abbiamo un dovere morale verso gli altri che giustifica la rinuncia alla nostra identità? L’estremismo è intrinsecamente malvagio, anche nella sua forma apparentemente più benigna? E quando le esplosioni emotive di Carol causano un sovraccarico emotivo nell’alveare, provocando la morte di circa dieci milioni di persone alla volta, dovrebbe forse accettare il suo destino e arrendersi?

Gilligan, maestro della disorientazione narrativa, costruisce Pluribus con la stessa meticolosità con cui assemblava le truffe di Saul Goodman o i piani criminali di Walter White. Le informazioni si rivelano gradualmente, ai margini dello schermo, in dettagli che sembrano insignificanti finché non diventano cruciali. La serie si sposta da Albuquerque – lo stesso deserto del New Mexico che ha fatto da sfondo a Breaking Bad, ma qui trasformato in un paesaggio quasi extraterrestre – a location sparse per il globo. Altri personaggi entrano in scena: Helen, la moglie e manager di Carol interpretata da Miriam Shor, e Zosia, una misteriosa figura assegnata a soddisfare ogni capriccio di Carol per spingerla verso la felicità.

Il ritmo è deliberato, a volte lento. Pluribus è una serie che brucia senza fretta, che a tratti sembra perdere slancio prima di tirare fuori un altro asso dalla manica. Non è intrattenimento leggero. È fantascienza cerebrale che richiede pazienza e riflessione. I credits di ogni episodio terminano con un disclaimer: “Questo show è stato realizzato da esseri umani.” Una dichiarazione che è insieme una provocazione contro l’intelligenza artificiale e uno slogan perfetto per una serie che è sia un manifesto per l’umanità e la libertà di pensiero, sia un’esperienza straordinariamente divertente da guardare.

Gilligan non ha scelto una corsia ideologica precisa. Pluribus potrebbe essere letta come una critica progressista dell’autoritarismo, una difesa libertaria dell’individuo o un attacco conservatore all’utopismo comunitario. E forse è proprio questa ambiguità produttiva a rendere la serie così potente. Carol è testarda, difficile, a volte insopportabile. Ma è anche disperatamente, magnificamente umana. E in un mondo dove tutti sorridono con la stessa espressione vuota, la sua rabbia diventa l’unica cosa che vale la pena salvare.

Apple TV+ ha già rinnovato la serie per una seconda stagione, una scommessa coraggiosa su un progetto che sfida le convenzioni del formato televisivo. Pluribus non è Breaking Bad con gli alieni. È qualcosa di completamente diverso: un esperimento narrativo audace che usa il linguaggio della fantascienza per parlare del presente. Ed è, senza dubbio, uno degli show più intelligenti e inquietanti del 2025. Non è quasi deprimente come la vita reale. È peggio. Ed è esattamente per questo che dovreste guardarlo.

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