Quando don Giuseppe Santoro varca i confini del Rione Sanità, non indossa l’abito talare. Preferisce una camicia qualunque, quella che non lo distingue troppo dalle persone che incontra per strada.
“Siete un prete o un imprenditore?”, gli chiedono mentre ispeziona terreni, disegna progetti, immagina cooperative. La risposta è più complessa di quanto sembri: don Giuseppe è entrambe le cose, o forse nessuna delle due. È semplicemente un uomo che ha trasformato la pastorale in azione concreta, gli ultimi in protagonisti, un quartiere abbandonato in una comunità che resiste.
Noi del Rione Sanità, fiction in sei episodi diretta da Luca Miniero, è andata in onda dal 23 ottobre in prima visione su Rai 1 e in boxset esclusivo su RaiPlay. La serie si ispira alla figura straordinaria di don Antonio Loffredo, sacerdote realmente esistente che dal 2001 vive e opera nel cuore pulsante e contraddittorio della Sanità napoletana. Non è un’agiografia televisiva, ma il racconto di un uomo vulcanico che ha scelto di non abbassare mai lo sguardo, nemmeno davanti alle pressioni della malavita o alle resistenze interne alla stessa Chiesa.
La storia parte da un pretesto classico delle narrazioni di potere: la rimozione mascherata. Don Giuseppe, cappellano nel carcere di Poggioreale, viene formalmente trasferito dopo la fuga di due detenuti sotto la sua tutela. La Curia lo spedisce come parroco di quattro chiese del Rione Sanità, il quartiere dal quale lui stesso proviene. Ciò che doveva essere una punizione si trasforma in una rinascita. Perché don Giuseppe non è il tipo di prete che celebra messe e si ritira in sacrestia. È quello che riqualifica le Catacombe, che crea la cooperativa La Paranza per dare lavoro ai giovani del quartiere, che apre palazzi storici nascosti dietro ingressi angusti e li trasforma in attrazioni turistiche gestite dai ragazzi della Sanità stessa.
A dare corpo e voce al protagonista è Carmine Recano, volto già noto al pubblico televisivo per il ruolo del comandante Massimo Esposito in Mare fuori. Non è una scelta casuale: le due serie condividono una napoletanità viscerale, una tensione narrativa costruita sui conflitti generazionali e sociali, persino una sigla che ne richiama fortemente l’atmosfera. Recano interpreta don Giuseppe con una fisicità nervosa, capace di passare dalla determinazione all’empatia senza mai scivolare nel paternalismo. Il suo prete non è un santino, è un uomo che sbaglia, che dubita, che si arrabbia.
Accanto a lui, un cast che mescola volti riconoscibili e giovani talenti napoletani esordienti. Nicole Grimaudo interpreta Manuela, vecchia fiamma del sacerdote, ora madre e intrappolata in un matrimonio violento. Il loro rapporto riapre brecce nel passato di don Giuseppe, quelle domande irrisolte su cosa sarebbe potuto essere e cosa invece ha scelto di diventare. Tra i giovani spicca Rocco Guarino nei panni di Massimo, ragazzo inizialmente infiltrato dal boss di zona ma destinato a diventare uno dei più fedeli collaboratori del prete. È attraverso personaggi come Massimo che la fiction esplora il tema centrale della redenzione possibile, della scelta che può cambiare il destino.
Particolare attenzione merita Bianca Nappi nel ruolo di suor Celeste, figura pragmatica e ironica, lontana dagli stereotipi della suora devota e silenziosa. È la colonna vertebrale che sostiene don Giuseppe nei momenti di crisi, quella che con una battuta asciutta riporta la prospettiva quando tutto sembra perduto. Un personaggio scritto con intelligenza, che sfugge alla polarizzazione semplicistica che talvolta affligge altri ruoli della serie.
Perché questo è il limite più evidente di Noi del Rione Sanità: la caratterizzazione stereotipata di alcuni personaggi secondari. Il sacrestano Lello, l’eterno chierichetto Asprinio, l’invidioso don Bastiano della Curia sono figure che scivolano nella tipizzazione, nel folklore televisivo che il pubblico generalista di Rai 1 riconosce e apprezza ma che rischia di banalizzare un contenuto altrimenti potente. La divisione netta tra bene e male, pur funzionale alla narrazione popolare, toglie complessità a una realtà fatta di sfumature e compromessi quotidiani.
Eppure la serie funziona, e funziona perché porta sullo schermo una storia vera che merita di essere raccontata. Don Antonio Loffredo, figura a cui la fiction è dichiaratamente ispirata, ha scritto un’opera letteraria omonima edita da Mondadori dove racconta i suoi anni alla Sanità. Non si è mai fatto intimorire, ha dato vita a progetti concreti che hanno cambiato il volto del quartiere. Le Catacombe restaurate, i palazzi storici aperti al pubblico, i giovani trasformati da potenziali vittime della criminalità in guide turistiche e imprenditori. È questa la vera rivoluzione: non la predicazione, ma l’azione.
La regia di Luca Miniero mantiene un ritmo sostenuto, alternando momenti di tensione a parentesi più intime e riflessive. La fotografia restituisce una Napoli di contrasti, dove la bellezza architettonica convive con il degrado, dove la luce del mare irrompe nei vicoli stretti e ombreggiati. La colonna sonora, inevitabilmente legata alla tradizione musicale partenopea, accompagna senza mai sopraffare.
Il vero merito di Noi del Rione Sanità è duplice. Da un lato presenta al grande pubblico la figura di don Loffredo e il suo modello di Chiesa in uscita, quella che Papa Francesco invoca ma che trova ancora resistenze e incomprensioni. Dall’altro introduce gli spettatori al Rione Sanità stesso, un luogo che va visitato, conosciuto, rispettato. Non è solo il set di una fiction, è una comunità reale che ha scelto di non arrendersi, di trasformare le sue contraddizioni in creatività e resistenza.
La serie si conclude con un messaggio di speranza operosa, quella che non si affida ai miracoli ma al lavoro quotidiano, alla fiducia nei giovani, alla convinzione che ogni persona meriti una seconda possibilità. Don Giuseppe lascia il Rione Sanità trasformato, ma il quartiere ha trasformato anche lui. È questo scambio reciproco, questa relazione autentica tra un uomo e un territorio, a fare la differenza tra una storia edificante e una storia vera.
Noi del Rione Sanità non è un capolavoro televisivo, ma è un prodotto onesto e necessario che compie la sua missione: raccontare che il cambiamento è possibile quando qualcuno ha il coraggio di iniziarlo, anche se la Curia vorrebbe farlo sparire, anche se i boss provano a fermarlo, anche se tutto sembra perduto. Nel cuore di Napoli, tra vicoli e catacombe, un prete senza tonaca ha dimostrato che la fede si misura dalle opere, non dalle preghiere.