Erano le 21.42 del 6 agosto 1926 quando Gertrude “Trudy” Ederle toccò la costa francese, emergendo dalle acque gelide del canale della Manica.

L’americana aveva appena compiuto un’impresa che avrebbe dovuto riscrivere i libri di storia: diventare la prima donna ad attraversare a nuoto quello specchio d’acqua leggendario, quel confine liquido che separa l’Inghilterra dalla Francia. Eppure, quasi un secolo dopo, il suo nome rimane avvolto nell’oblio. Come è possibile che una conquista così straordinaria sia stata dimenticata?

La risposta arriva oggi attraverso il cinema, con “La ragazza del mare”, il film biografico diretto da Joachim Rønning che porta sullo schermo la storia di Trudy. A interpretarla è Daisy Ridley, l’attrice che il mondo ha conosciuto come Rey nella saga di Star Wars, qui nelle vesti sia di protagonista che di produttrice esecutiva. Un doppio ruolo che testimonia quanto profondamente questa vicenda l’abbia toccata.

“Mi ha ispirato la storia di Trudy che, oltre ad essere stata un’incredibile campionessa, è stata anche una donna forte e coraggiosa”,

racconta Ridley.

“Una vera e propria fonte di ispirazione. Ha dovuto superare moltissime difficoltà ed è riuscita a farsi valere, nonostante tutto e tutti”.

Parole che risuonano come un manifesto, perché la storia di Ederle non è solo quella di una nuotatrice eccezionale, ma di una donna che ha dovuto combattere contro l’ostilità di un’intera società patriarcale che non credeva nelle capacità femminili.

Nata a New York da genitori tedeschi immigrati, Trudy scalò la classifica della squadra olimpica di nuoto americana affrontando pregiudizi e barriere invisibili. Il film racconta questo percorso di emancipazione attraverso l’acqua, elemento che diventa metafora di libertà e resistenza. Al suo fianco, i familiari e la sua allenatrice, figure fondamentali che credettero in lei quando il resto del mondo la considerava una follia ambulante.

Per Daisy Ridley, portare sullo schermo questa storia ha significato affrontare sfide concrete e psicologiche. Le riprese si sono svolte in gran parte in mare aperto, e l’attrice non nasconde le sue paure iniziali.

“All’inizio sì, tanto. Ho dovuto superare la sensazione di sentirmi così piccola in uno spazio così immenso”

confessa. Un’ammissione che rende la sua performance ancora più autentica, perché quella vulnerabilità davanti all’immensità del mare è esattamente ciò che Trudy dovette vincere.

La preparazione fisica è stata intensa.

“Tantissimo! Mi sono allenata sia psicologicamente che fisicamente, da una parte ho superato l’ostacolo mentale che avevo. Dall’altra, per quanto riguarda il nuoto, sono andata avanti una bracciata alla volta”.

Quella frase, “una bracciata alla volta”, racchiude tutta la filosofia dell’impresa: non si attraversa la Manica pensando ai chilometri che mancano, ma concentrandosi sul movimento successivo, sul respiro dopo il respiro.

L’esperienza come produttrice esecutiva ha aggiunto un’ulteriore dimensione al suo coinvolgimento.

“È stato fantastico anche perché mi ha dato la possibilità di vedere come i vari pezzi di un film si spostano e si uniscono tra di loro”.

Un ruolo che le ha permesso di controllare la narrazione, di assicurarsi che la storia di Trudy venisse raccontata con il rispetto e l’autenticità che meritava.

Ma perché questa storia è così importante oggi, quasi cent’anni dopo? Ridley non ha dubbi:

“Per tanto tempo gli uomini non hanno permesso alle donne di fare sport e di competere a livello agonistico. Oggi, per fortuna, sono stati fatti molti passi avanti verso l’uguaglianza in ambito sportivo e non solo”.

Le parole dell’attrice risuonano in un’epoca in cui le battaglie per la parità di genere continuano, ricordandoci che ogni conquista odierna poggia sulle spalle di pioniere come Trudy.

C’è un dettaglio toccante che emerge dall’intervista: Ridley ha conosciuto una persona che aveva incontrato la vera Trudy, scomparsa nel 2003 a 98 anni.

“Mi ha detto che era calma, modesta, giusta”,

racconta. Aggettivi che dipingono il ritratto di una donna che non cercava la gloria, ma semplicemente voleva dimostrare che era possibile.

“Se potessi incontrarla, le chiederei di più su come è stata la sua vita dopo la storica impresa della Manica. Sono sicura che sarebbe molto bello e interessante”.

Il film, uscito nel 2024 e della durata di 129 minuti, vede nel cast anche Tilda Cobham-Hervey e Stephen Graham, in un racconto corale che celebra non solo l’eroina, ma anche chi le stette accanto. La regia di Joachim Rønning costruisce una narrazione che alterna momenti di tensione atletica a riflessioni intime, trasformando una storia sportiva in un’epopea di emancipazione.

“La ragazza del mare” non è solo un biopic, ma un atto di giustizia storica. Restituisce a Trudy Ederle il posto che merita nell’immaginario collettivo, sottraendola all’oblio ingiusto che l’aveva avvolta. Perché quella sera del 6 agosto 1926, quando emerse dalle acque della Manica, non stava solo completando una traversata: stava aprendo una strada che milioni di donne avrebbero percorso dopo di lei. E forse, guardando Daisy Ridley nuotare in mare aperto, spaventata ma determinata, possiamo finalmente vedere ciò che il mondo non volle vedere quasi un secolo fa: una ragazza che divenne leggenda, una bracciata alla volta.

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