Il silenzio è ingannevole. Nelle montagne del Montana rurale, una casa di legno accoglie Jackson e Grace, una coppia in fuga da New York.

Lui è musicista, lei scrittrice. Entrambi sognano una vita diversa, lontana dal caos metropolitano. Ma quando Lynne Ramsay costruisce un idillio così perfetto nelle scene iniziali di Die My Love, sa già esattamente come distruggerlo. E lo fa con la precisione chirurgica di chi conosce l’anatomia delle relazioni che collassano.

L’amore tra Jackson e Grace è ferino, primordiale. Appena varcata la soglia della loro nuova casa, il silenzio esplode in una danza selvaggia sulle note di un rock assordante, che si trasforma in una scena di sesso tigresca, rabbiosa. È il tipo di passione giovane che brucia con tale intensità da consumarsi rapidamente. Ramsay non si affida alle sottigliezze: mentre i titoli di testa scorrono sullo schermo, la foresta circostante si incendia. Una metafora fin troppo letterale, forse, ma efficace nel stabilire il tono di ciò che verrà.

Die My Love non è davvero una storia d’amore al collasso. È qualcosa di più viscerale e disturbante: il ritratto della spirale post-partum che Grace attraversa dopo la nascita del loro bambino. Il film salta avanti di mesi, in un tempo indefinito dove il sesso è svanito, dove Jackson si allontana sempre di più—lavorando, sparendo, vivendo una vita che Ramsay sceglie deliberatamente di non mostrarci. La regista scozzese, autrice di capolavori come We Need to Talk About Kevin, concentra invece la sua lente implacabile su Grace, sola con il bambino, alle prese con un isolamento che si fa progressivamente claustrofobico.

Questa storia tristemente comune viene spinta da Ramsay verso estremi allucinatori. Grace non subisce semplicemente la solitudine: la incarna, la deforma, la trasforma in un’espressione violenta dei desideri repressi. Il film diventa un’esperienza espressionistica, dove la psicosi della protagonista contamina la struttura narrativa stessa. Ed è qui che Jennifer Lawrence esplode sullo schermo con una performance di potenza brutale. L’attrice premio Oscar si getta nella discesa agli inferi di Grace con un’intensità che tiene insieme un film altrimenti pericolosamente instabile.

Robert Pattinson, dal canto suo, riesce a tenere il passo. Il suo Jackson è una presenza elusiva, sfuggente quanto basta per rendere palpabile il vuoto che Grace sente crescere intorno a sé. Ma è Lawrence il cuore pulsante e sanguinante di Die My Love, capace di trasmettere la follia crescente del personaggio senza mai cadere nella caricatura.

La prima metà del film è elettrizzante. Ramsay costruisce tensione attraverso la frammentazione, lasciando che la narrazione si sfaldi insieme alla psiche di Grace. Eppure, proprio questa scelta stilistica—così efficace inizialmente—diventa la trappola in cui il film cade. Die My Love perde progressivamente coesione, smarrendo la presa su se stesso. L’estetica prende il sopravvento sulla sostanza, le immagini oniriche si moltiplicano senza direzione chiara, e la narrazione vaga verso un finale opaco che tradisce la ferocia delle performance.

È frustrante vedere un film così sorretto da interpretazioni taglienti perdere mordente proprio quando dovrebbe stringere la presa. Le machinations estetiche di Ramsay, che in opere precedenti avevano trovato perfetto equilibrio tra forma e contenuto, qui sembrano fuggire dal suo controllo. Il risultato è un’opera che si sfilaccia insieme alla sua protagonista, ma senza il coraggio di portare questa dissoluzione fino alle sue conseguenze più estreme.

Die My Love resta comunque un’esperienza cinematografica notevole per chi cerca cinema che osi, che scavi nelle zone d’ombra della maternità senza filtri edulcorati. Lawrence e Pattinson offrono ragioni sufficienti per affrontare le sue 119 minuti di durata. Ma è impossibile non chiedersi cosa sarebbe potuto essere questo film se Ramsay avesse mantenuto fino alla fine il controllo ferreo dimostrato nelle sequenze iniziali. Un thriller psicologico sulla solitudine materna che promette di essere letale, ma che alla fine si rivela più affilato all’inizio che al termine del suo percorso.

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