Quando Inception arrivò nelle sale nel 2010, portò con sé un’ondata di entusiasmo che travolse il pubblico globale.
Un blockbuster intellettuale, lo chiamarono. Un capolavoro cerebrale mascherato da action movie estivo. Eppure, sotto la superficie lucida di effetti speciali mozzafiato e architetture oniriche impossibili, si nasconde una delle opere più controverse della filmografia di Christopher Nolan. Un film che non ha semplicemente diviso la critica, ma che ha sollevato interrogativi fondamentali sul modo in cui concepiamo il cinema stesso.
Il cuore della controversia risiede in una scelta radicale: Inception tratta il sogno non come dimensione poetica o alterità di senso, ma come puzzle meccanico da risolvere. Nolan costruisce un’architettura narrativa dove ogni livello onirico funziona secondo regole precise, quasi matematiche. Non c’è spazio per la deviazione, per l’inconscio che sfugge al controllo. I sogni diventano scacchiere dove i personaggi si muovono secondo logiche predeterminate, e questa scelta segna una distanza abissale dalla tradizione del cinema onirico che va da Luis Buñuel a David Lynch.
Il problema dei corpi assenti attraversa l’intera opera. Leonardo DiCaprio e Marion Cotillard, attori capaci di incarnare universi emotivi complessi, vengono qui ridotti a pedine funzionali alla trama. DiCaprio interpreta Dom Cobb come un uomo tormentato dal senso di colpa, ma il suo tormento resta dichiarato, mai incarnato. Marion Cotillard appare come proiezione fantasmatica di Mal, moglie suicida che infesta i sogni del protagonista, ma la sua presenza è priva di quella fisicità perturbante che l’attrice francese sa portare sullo schermo. Sono presenze prosciugate, svuotate di quella valenza autoriale che li contraddistingue.
La struttura del film rivela la sua natura nella sequenza dell’hotel capovolto. Joseph Gordon-Levitt combatte in corridoi che ruotano su se stessi mentre i corpi galleggiano nell’assenza di gravità. Tecnicamente impressionante, certo. Ma dove finisce la capacità evocativa dello sguardo quando tutto è subordinato alla dimostrazione di una regola fisica? Il cinema di Nolan procede per sottrazione: ogni stacco di montaggio è concepito per disorientare, per far chiedere ai personaggi “come siamo arrivati qui?”. Non si tratta di montaggio contemporaneo o di frammentazione narrativa consapevole, ma di sistematico insabbiamento del senso.
Il regista britannico aveva già mostrato questa tendenza in Il cavaliere oscuro, dove i tranelli del Joker servivano a ridurre la partitura cinematografica a diagramma di microstrutture. Lì, il sacrificio del personaggio di Rachel non aveva valore drammatico intrinseco, ma serviva solo ad avanzare di una mossa sulla scacchiera narrativa. Come se il senso del cinema fosse tenere in scacco l’immagine, non liberarla.
Il modello dichiarato di Inception è il cinema inglese che diventa blockbuster: Intrigo Internazionale di Alfred Hitchcock e la saga di James Bond. Non a caso, la sequenza sulla neve richiama esplicitamente l’estetica delle avventure dello 007. Ma il confronto con questi riferimenti evidenzia proprio ciò che manca: in Hitchcock, la suspense nasce dall’identificazione con corpi vulnerabili esposti al pericolo. In Nolan, tutto è mediato dalla struttura, dall’architettura concettuale che sovrasta ogni elemento umano.
Il limbo finale rappresenta la metafora definitiva di questa concezione. Grattacieli vuoti che si ergono su una spiaggia deserta, città fantasma costruita dai ricordi di Cobb e Mal. Un’architettura imponente ma disabitata, priva di vita. È l’immagine perfetta di un cinema che innalza il testo a unica architettura accettata, sacrificando il potere evocativo dello sguardo sull’altare della complessità narrativa.
Alcuni critici hanno voluto leggere in Inception una riflessione critica sulla dipendenza dalla realtà virtuale, su un’umanità che preferisce rifugiarsi in universi artificiali piuttosto che affrontare il reale. Ma questa lettura rischia di attribuire al film una consapevolezza che la sua stessa forma contraddice. Come può un’opera criticare la fuga nel virtuale quando essa stessa rinuncia alla presenza carnale, alla materialità dei corpi, alla fisicità dell’emozione?
Ken Watanabe, attore giapponese di straordinaria intensità, viene letteralmente incartapecorito nella cornice iniziale e finale del film. Il suo Saito diventa un vecchio irriconoscibile nel limbo, poi ritorna giovane attraverso un montaggio che elide qualsiasi processo di trasformazione. È sintomatico di un approccio che considera il corpo dell’attore come materiale malleabile, non come presenza significante.
La distanza rispetto ai fratelli Wachowski, spesso citati come riferimento per via di Matrix, è in realtà enorme. Larry e Andy Wachowski mantengono una centralità del corpo anche nella dimensione virtuale. Neo, Trinity e Morpheus esistono fisicamente dentro e fuori dalla matrice, e questa doppia presenza genera il senso dell’opera. In Inception, i personaggi sono sempre e solo funzioni narrative, mai presenze che resistono alla logica del racconto.
Il cast stellare include Tom Hardy, Cillian Murphy, Ellen Page, Tom Berenger e Michael Caine, ma nessuno di loro riesce a emergere dalla gabbia della struttura. Sono tutti al servizio di un meccanismo che li sovrasta, ingranaggi di un orologio narrativo che non può permettersi deviazioni. Ellen Page interpreta Ariadne, l’architetto dei sogni, ma il suo personaggio esiste solo per spiegare le regole al pubblico, mai per esistere di luce propria.

Eppure Inception ha incassato oltre 830 milioni di dollari nel mondo e ha conquistato quattro Oscar tecnici. Il pubblico ha amato perdersi nei suoi labirinti onirici, discutere della trottola finale che forse cade o forse continua a girare. La domanda che il film lascia aperto – Cobb è ancora nel sogno o è tornato alla realtà? – è diventata materia di dibattito infinito. Ma forse questa stessa domanda rivela il limite dell’opera: un enigma che resta tale non per profondità, ma per ambiguità costruita a tavolino.
La fotografia di Wally Pfister costruisce immagini di grande impatto visivo: la città che si ripiega su se stessa, il treno che attraversa la strada, l’hotel che ruota. Sono momenti spettacolari che hanno definito l’estetica del blockbuster cerebrale degli anni Duemila. Ma restano, appunto, momenti. Frammenti di spettacolo inseriti in una macchina narrativa che li ingloba senza mai permettere loro di respirare, di esistere come pura visione.
La colonna sonora di Hans Zimmer, con il suo celebre rallentamento di “Non, je ne regrette rien” di Édith Piaf, contribuisce a creare un’atmosfera di urgenza costante. Ma anche qui, la musica serve principalmente a sottolineare le transizioni tra livelli di sogno, a marcare i confini della struttura piuttosto che a generare emozione autonoma.
Quindici anni dopo la sua uscita, Inception rimane un film divisivo. Per alcuni, rappresenta il vertice del cinema mainstream intelligente, capace di sfidare il pubblico senza rinunciare allo spettacolo. Per altri, è cinema d’autore solo di facciata, un’operazione che usa i codici del film cerebrale per costruire in realtà un prodotto che rinuncia proprio a ciò che rende il cinema una forma d’arte: la capacità di evocare, di suggerire, di lasciare che lo sguardo generi senso.
La vera eredità di Inception potrebbe essere proprio questa ambiguità. Ha dimostrato che un blockbuster può essere complesso, stratificato, ambizioso nella sua architettura narrativa. Ma ha anche mostrato i limiti di un cinema che subordina tutto alla struttura, che considera l’immagine come illustrazione di un concetto piuttosto che come fonte autonoma di significato. Un film che, nel suo tentativo di mappare completamente il territorio del sogno, ha forse dimenticato che i sogni più potenti sono proprio quelli che sfuggono a ogni mappa.