Quando Leonardo DiCaprio viene paragonato a Jack Nicholson, come è accaduto dopo la sua performance in “One Battle After Another” di Paul Thomas Anderson, non si tratta di un complimento qualunque.
È il riconoscimento che un attore ha raggiunto quel territorio raro dove il caos controllato diventa arte, dove ogni sfumatura del personaggio vibra di una vita propria. DiCaprio, con la sua metamorfosi da combattente per la libertà a padre decaduto, ha dimostrato quella stessa capacità di incarnare la complessità umana che ha reso Nicholson una leggenda vivente.
Ma se volete davvero capire la grandezza di Jack Nicholson, non dovete limitarvi ai suoi Oscar. Dovete guardare altrove, verso quei ruoli che altri attori avrebbero considerato semplici commissioni commerciali, occasioni per incassare un assegno e andare avanti. Nicholson, invece, non ha mai fatto nulla a metà. E c’è un ruolo in particolare che lo dimostra in modo cristallino: il suo Joker in Batman del 1989.
I film di supereroi degli anni Ottanta non erano certo i colossi narrativi che conosciamo oggi. Non c’era la profondità psicologica di The Dark Knight, non c’era l’ambizione artistica che Christopher Nolan avrebbe portato nel genere quasi vent’anni dopo. Il Batman di Tim Burton era, per ammissione di tutti, un tentativo di trasferire letteralmente il fumetto sullo schermo, con tutta la sua inerente stravaganza e il suo kitsch colorato. Era un progetto che poteva facilmente scivolare nel ridicolo, un film pensato per vendere giocattoli e divertire i bambini.
Eppure Nicholson guardò a quel copione, a quel costume esagerato, a quella parrucca verde, e vide qualcosa che nessun altro aveva visto: un’opportunità per creare il male puro e semplice, per incarnare un personaggio che potesse davvero spaventare, non solo intrattenere.
Lo stesso Nicholson lo ha confermato senza mezzi termini:
“Ancora oggi ho sempre preso questa performance più sul serio di probabilmente chiunque altro al mondo, perché l’ho vista in quel modo. La mia esperienza precoce mi ha insegnato, lavorando per un pubblico pieno di bambini, che più li spaventi, più gli piace. Peggiore sei, meglio è”.
Questa filosofia ha trasformato quello che avrebbe potuto essere un villain cartoonesco in qualcosa di molto più inquietante. Il Joker di Nicholson non è solo malvagio: è imprevedibile, sadico, magnetico. Ogni risata stridula, ogni sorriso ghignante porta con sé un senso di pericolo reale. Mentre Heath Ledger avrebbe poi vinto un Oscar postumo per la sua interpretazione tormentata e anarchica del personaggio in The Dark Knight, il Joker di Nicholson appartiene a un’altra epoca, a un altro linguaggio cinematografico. Ma questo non lo rende meno memorabile o meno riuscito.
La differenza sta nell’approccio. Nicholson sapeva che stava lavorando con materiale apparentemente leggero, ma rifiutò di trattarlo come tale. Dove altri attori avrebbero semplicemente recitato le battute, lui costruì un personaggio stratificato, uno psicopatico che si diverte genuinamente nel provocare sofferenza. Il risultato è una performance che i fan ancora oggi ricordano con affetto e rispetto, una pietra miliare nel genere dei cinecomic che ha aperto la strada a tutto ciò che è venuto dopo.
Questo stesso impegno totale è quello che lo ha reso uno degli attori più rispettati di Hollywood. Dalla follia claustrofobica di Shining di Stanley Kubrick alla disperazione di Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman, Nicholson ha sempre portato un’intensità che trascende il copione. Non recita: abita i suoi personaggi, li fa respirare, li rende reali anche quando sono manifestamente irreali.
È interessante notare che il ruolo di Jack Torrance in Shining, uno dei suoi più iconici, fu considerato anche per un altro attore noto per la sua versatilità: Robin Williams. Secondo alcune fonti, Kubrick avrebbe pensato a Williams per il ruolo del padre che impazzisce nell’Overlook Hotel, anche se lo storico del cinema Lee Unkrich ha messo in dubbio questa teoria, sottolineando che Nicholson era già stato scelto nel 1977, prima ancora che Mork & Mindy rendesse Williams famoso. Che sia vera o meno, la storia sottolinea quanto il nome di Nicholson fosse sinonimo di intensità già allora.
Williams avrebbe poi dimostrato di poter essere terrificante a modo suo, con la sua performance disturbante in One Hour Photo del 2002, dove interpreta Sy Parrish, un tecnico di sviluppo fotografico che diventa ossessionato da una famiglia di clienti. Ma nel 1980, era Nicholson l’uomo per quel genere di ruoli. E lo è ancora oggi, anche se si è ritirato dalle scene da oltre un decennio.
Al Lumière Film Festival di Lione, dove Sean Penn è stato recentemente onorato come ospite d’onore, l’attore e regista ha parlato del suo amore per il cinema e per i grandi registi con cui ha lavorato, da Paul Thomas Anderson a Brian De Palma, passando per Terrence Malick. Penn, noto per la sua stessa intensità sul set, rappresenta una continuazione di quella tradizione di totale dedizione che Nicholson ha incarnato per decenni. È un approccio che richiede coraggio, vulnerabilità e una disponibilità a rischiare il ridicolo per raggiungere qualcosa di autentico.
Quando DiCaprio viene chiamato “il nuovo Jack Nicholson”, quindi, non è solo un paragone superficiale. È il riconoscimento di un lignaggio artistico, di una torcia che viene passata da una generazione all’altra. Significa che DiCaprio ha abbracciato quella stessa filosofia: che ogni ruolo merita rispetto, che ogni personaggio, per quanto apparentemente semplice o commerciale, può diventare qualcosa di memorabile se affrontato con la giusta serietà.
E se anche il Joker di un film di Batman del 1989 può diventare iconico nelle mani giuste, allora forse la lezione è questa: non esistono ruoli piccoli, esistono solo attori che non osano abbastanza. Jack Nicholson ha sempre osato. E il cinema ne è uscito più ricco.