Immaginate di accettare un lavoro così assurdo che già mentre lo descrivete vi rendete conto che nessuna persona sana di mente lo farebbe. Eppure Isaac, il protagonista di Caveat, dice di sì.

Dice di sì a prendersi cura di una ragazza con problemi mentali che vive in una casa isolata su un’isola in mezzo a un lago. Dice di sì nonostante non sappia nuotare. Dice di sì anche quando gli chiedono di indossare un’imbracatura legata a una catena, come se fosse un cane al guinzaglio. La sospensione dell’incredulità traballa pericolosamente, ma è proprio lì che Damian McCarthy vi vuole: sul filo del rasoio tra la logica e l’incubo.

Caveat è un esordio che ha il coraggio di chiedere molto al suo pubblico. Non si accontenta di spaventare con sobbalzi facili o atmosfere prevedibili. McCarthy, regista irlandese classe 1981, costruisce un horror quasi sperimentale che abbandona le convenzioni per abbracciare una forma di narrazione rarefatta, malsana, lynchiana nello spirito più che nella forma. Bastano pochi minuti dentro quella casa fatiscente perché ogni perplessità iniziale si dissolva, sostituita da un disagio viscerale che cresce silenziosamente, fotogramma dopo fotogramma.

La casa su quell’isoletta non è solo un rudere. È un organismo vivente fatto di muffe, intercapedini, livelli verticali che sembrano rispecchiare la psicologia frammentata di Isaac. Lui ha buchi di memoria, conseguenza di un misterioso incidente recente. È a corto di denaro e di alternative. È vulnerabile. E in questa vulnerabilità diventa la preda perfetta per quello che si nasconde tra quelle mura: presenze sovrannaturali, cadaveri sepolti, segreti di famiglia che riguardano Olga, la ragazza che dovrebbe sorvegliare, e suo padre, morto suicida nella cantina dopo essere rimasto intrappolato dalla sua stessa claustrofobia.

Ma l’elemento più inquietante di Caveat non è umano né propriamente sovrannaturale. È un coniglio di pezza con un tamburo che batte come il cuore impazzito di un rabdomante, solo che al posto dell’acqua localizza entità malvagie. Questo oggetto, apparentemente innocuo nella sua natura da giocattolo, diventa il simbolo perfetto dell’approccio di McCarthy all’horror: prendere qualcosa di familiare e trasformarlo in un catalizzatore di terrore puro attraverso il contesto e l’ambiguità.

Jonathan French, che interpreta Isaac, porta sulle spalle un ruolo complesso con una credibilità sorprendente. Il suo personaggio deve navigare tra realtà e allucinazione, tra ricordi soppressi e minacce concrete, senza mai sapere davvero a cosa credere. Olga, interpretata con intensità controllata, oscilla tra stati catatonici e momenti di lucidità terrorizzata in cui brandisce una balestra. Questa instabilità emotiva non è mai gratuita: è il cuore pulsante di un meccanismo narrativo che gioca continuamente con le aspettative dello spettatore.

Caveat si muove con la sicurezza di chi sa che l’horror più efficace non è quello che mostra tutto, ma quello che suggerisce, che lascia nell’ombra, che costruisce attraverso le sospensioni. McCarthy evita quasi completamente i jump scare tradizionali, preferendo costruzioni più raffinate che ricordano il J-horror dei tempi migliori, lontane anni luce dalle baracconate rumorose di certi colleghi contemporanei. Il buio qui non è solo assenza di luce: è una presenza tangibile, un personaggio a sé stante.

Man mano che Isaac esplora quella casa e i suoi segreti, Caveat si trasforma in qualcosa di più profondo di un semplice racconto di fantasmi. Diventa un’indagine sulla colpa, sulla memoria, su come il passato possa letteralmente incatenarci al presente. La catena che lega Isaac non è solo un dispositivo narrativo: è una metafora fisica del senso di colpa che lo trattiene, dei legami con quella casa che forse sono più profondi di quanto lui stesso ricordi.

L’aspetto più notevole dell’esordio di McCarthy è la sua ambizione formale. In un panorama horror spesso dominato da formule collaudate e percorsi sicuri, Caveat sceglie l’eccentricità e il rischio. Non tutti i suoi esperimenti funzionano alla perfezione, ma l’audacia complessiva del progetto merita rispetto. È un film che chiede pazienza, che ricompensa l’attenzione, che continua a lavorare nella mente dello spettatore anche dopo i titoli di coda.

McCarthy confermerà questo talento con Oddity, la sua opera seconda, dimostrando che l’esordio di Caveat non è stato un colpo di fortuna ma l’inizio di una carriera da seguire con attenzione. Per chi cerca un horror che osi sfidare le convenzioni, che abbracci l’ambiguità e che non abbia paura di lasciare alcune domande senza risposta, Caveat rappresenta una scoperta preziosa. È un incubo febbrile che ha la forma di un puzzle incompiuto, dove ogni pezzo mancante è in realtà esattamente dove dovrebbe essere.

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