«Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi». Sono parole di Pier Paolo Pasolini, versi che contengono l’essenza di un uomo che ha fatto della contraddizione il proprio manifesto esistenziale.

Un intellettuale che amava la vita «così ferocemente, così disperatamente» da trasformare ogni gesto creativo in un atto di fede laica, dove il sacro e il profano si fondevano in un abbraccio indissolubile.

La religiosità di Pasolini non è mai stata ortodossa, né consolatoria. Era una religiosità viscerale, pagana, che contemplava insieme l’adorazione e la violazione. «Tutto è santo, ma la santità è insieme una maledizione», avrebbe fatto dire al Centauro nel prologo di Medea. Gli Dei che amano, nel tempo stesso odiano. È in questo cortocircuito emotivo e filosofico che si inserisce la sua scoperta del cinema come mezzo sacralizzante.

Pasolini non era un cineasta nato. Arrivò alla macchina da presa dopo anni di intensa attività letteraria e dopo una carriera meno nota come pittore. Quando girò Accattone, il suo primo film, lo fece alla maniera di un primitivo, di un “naif” che ignora le raffinate astuzie del mestiere. Ma proprio quella inesperienza divenne la sua forza originale. Bernardo Bertolucci, che fu suo aiuto-regista, racconta che lavorare con Pasolini significava scoprire «la prima panoramica o carrellata della storia del cinema». Come se ogni movimento di macchina fosse un gesto vergine, primordiale.

«Non c’è niente di più tecnicamente sacro di una lenta panoramica», confessava Pasolini. Un’affermazione che risuona con quella di Jean-Luc Godard: «L’uso del carrello nel cinema è una questione di moralità». Due modi diversi di esprimere lo stesso principio: il cinema non è solo racconto, è anche riflessione sui mezzi che usa per raccontare. Gli obiettivi, i movimenti di macchina, la luce, la qualità della pellicola diventano strumenti di pensiero. Per Godard questa riflessione era morale, per Pasolini era religiosa.

In Accattone, Pasolini usava il controluce che scavava le orbite degli occhi, creava ombre sotto il naso e intorno alla bocca, dilatava e sgranava le immagini «quasi da controtipo». Isolava i dettagli come se ciascuno di essi si trovasse, in quel momento, al centro del mondo. La colonna sonora attingeva dalla Passione secondo Matteo di Bach, musica sacra per accompagnare le vicende del sottoproletariato romano. Era un cortocircuito voluto, una provocazione estetica che conteneva in sé tutta la sua visione: il mondo non è diviso tra alto e basso, tra nobile e volgare. Tutto può essere santo, tutto può essere maledetto.

Prima di realizzare Il Vangelo secondo Matteo, Pasolini attraversò una fase di dubbi e ripensamenti che si cristallizzarono in La ricotta, film breve dove il bianco e nero si alterna al colore, la musica sacra ai ritmi spensierati della modernità. Orson Welles interpreta un regista impegnato in un kolossal sulla Passione di Cristo. Pasolini usava l’immagine del celebre cineasta per tracciare una caricatura di se stesso, facendogli fare tutto ciò che lui non avrebbe voluto fare.

C’è una scena emblematica: quando l’attrezzista prende la corona di spine per portarla sul set, la tiene sollevata a mezz’aria per qualche istante. Sullo sfondo si vedono i palazzoni della periferia di Roma. La corona di spine della città. Un’immagine che vale più di mille trattati sociologici, che contiene tutta la poetica pasoliniana: la sacralità non sta nei cieli, ma nella carne viva della realtà, nei margini, nelle borgate abbandonate dove «ragazzacci e mondane» sono «sporchi crocefissi senza spine».

Il vero soggetto religioso de La ricotta è Stracci, un padre di famiglia che fa la comparsa per mantenere i figli e che morirà nei panni del Buon Ladrone, dicendo a Cristo: «Ricordati di me quando sarai nel tuo regno». È la storia di chi vive ai margini, di chi non ha voce se non attraverso lo sguardo di chi decide di guardare davvero.

Quando finalmente realizzò Il Vangelo secondo Matteo, Pasolini non lo girò come aveva previsto. Nei primi giorni di lavorazione visse quello che lui stesso definì la sua «notte da innominato», un episodio che gli fece capire una verità fondamentale: un film poteva essere girato “contro” il modo in cui era stato scritto e montato “contro” il modo in cui era stato girato. Dopo appena tre anni di attività cinematografica, dopo aver esordito con uno stile coerente e inconfondibile, inventava un altro stile, egualmente coerente ma totalmente diverso. Passava dalla “sacralità tecnica” al “magma”.

L’originalità del Vangelo secondo Matteo resta legata, prima di tutto, alla fedeltà con cui il testo sacro è tradotto alla lettera in immagini. Di tutti i film ispirati alla Bibbia, quello di Pasolini è unico nel suo rifiuto di spettacolarizzare, di aggiungere, di tradire. È un film che rispetta il silenzio tra le parole, che lascia respirare la Parola senza sovrapporle interpretazioni consolatorie.

Pasolini mescolava i codici linguistici della realtà con quelli della poesia e del cinema, coinvolgendosi in prima persona nella materia trattata. Faceva del suo modo di vivere una filosofia, e della sua filosofia una religione. Una religione laica, contraddittoria, che conteneva in sé la duplice valenza del bene e del male. «Il mondo non sembra essere, per me, che un insieme di padri e di madri, verso cui ho un trasporto totale, fatto di rispetto venerante, e di bisogno di violare tale rispetto».

Era questo il suo cristianesimo eretico: un amore totale per la vita fisica, per il sole, l’erba, la giovinezza, mescolato a una disperazione cosmica. Una religiosità che non cercava redenzione ma che trovava nella contraddizione stessa la propria ragione d’essere. Le quinte dell’Ina-Casa, i palazzoni di Bullicante e Cecafumo diventavano altari. I sottoproletari erano crocefissi senza croce. E una lenta panoramica cinematografica poteva contenere più preghiera di mille liturgie.

Cinquant’anni dopo la sua morte, Pasolini continua a interrogarci con quella stessa urgenza febbrile. La sua lezione è che la sacralità non è una categoria separata dall’esistenza, ma il modo stesso di guardare il mondo. Ogni inquadratura è una scelta morale. Ogni movimento di macchina è un atto di fede o di tradimento. Il cinema, scoperto come mezzo sacralizzante, diventa così l’ultima forma possibile di religione per chi non crede ma non può smettere di cercare.

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