Ci sono momenti nel cinema e nelle serie TV horror che ridefiniscono i confini del terrore. Sequenze che non si limitano a spaventare, ma che scavano nelle viscere dell’inconscio per estrarre paure primordiali che non sapevamo nemmeno di avere.
Il secondo episodio di “It: Welcome to Derry”, la serie prequel creata da Andy e Barbara Muschietti per HBO, raggiunge esattamente questo risultato con una scena che trasforma il trauma della nascita in un incubo indimenticabile.
La serie degli Muschietti non segue pedissequamente la cronologia stabilita da Stephen King nel suo universo narrativo, ma una cosa rimane invariata: il metodo sadico con cui Pennywise terrorizza i bambini di Derry. Il pagliaccio danzante non uccide semplicemente le sue vittime. Le “sala”, come dice lui stesso, perché la carne spaventata ha un sapore migliore. Questo rituale macabro, che affonda le radici nel 1715 secondo la mitologia della serie, trova nel secondo episodio una delle sue manifestazioni più viscerali e psicologicamente devastanti.
Dopo il massacro del teatro raccontato nell’episodio precedente, dove tre bambini innocenti hanno perso la vita in circostanze orribili, due giovani sopravvissute portano il peso di ciò che hanno visto. Lilly, interpretata da Clara Stack, e Ronnie, portata in scena da Amanda Christine, sono le uniche testimoni della carneficina. Ma il loro calvario è appena iniziato. Le autorità locali, guidate da un razzismo malcelato, vogliono incastrare Hank Grogan, il padre di Ronnie interpretato da Stephen Rider, costringendo Lilly a mentire sotto la minaccia di essere rinchiusa a Juniper Hill.
È in questo contesto di vulnerabilità totale che Pennywise colpisce con la ferocia di un predatore che ha individuato la preda perfetta. Ronnie, rimasta sola nella sua stanza, cerca conforto nell’immagine incorniciata di sua madre. Un gesto di disperata ricerca di sicurezza che si trasforma nel preludio dell’orrore più puro. Quando si copre con un lenzuolo per sentirsi protetta, il tessuto si trasforma in qualcosa di organico, pulsante, vivo: un utero.
Ciò che segue è una sequenza che ridefinisce il concetto stesso di body horror. Ronnie si ritrova intrappolata in questa membrana carnosa, costretta a farsi strada attraverso di essa come se stesse nascendo di nuovo. Emerge coperta di pus, sangue e liquido amniotico, gattonando in uno stato di terrore primordiale. Quando si volta, vede il mostro assumere le fattezze di sua madre morta. La creatura la incolpa di averla uccisa durante il parto, materializzando la colpa inconscia che Ronnie ha portato dentro di sé per tutta la vita.
Ma l’incubo non è finito. Il “grembo” si trasforma in una creatura miniaturizzata con denti frastagliati e affilati, ancora collegata a Ronnie tramite un cordone ombelicale. La ragazza viene trascinata violentemente verso questa aberrazione, e all’interno della bocca del mostro scorge gli occhi luminosi di Pennywise. È solo tagliando il cordone ombelicale che Ronnie riesce a spezzare la connessione con questo trauma manifestato, salvandosi da una morte che sembrava inevitabile.
La genialità perversa di questa sequenza risiede nella sua capacità di contaminare uno dei momenti più sacri dell’esistenza umana. La nascita, simbolo universale di vita e speranza, viene deformata in un evento mostruoso, carico di colpa e orrore. Non è la prima volta che “Welcome to Derry” sovverte il miracolo della vita: già nel primo episodio, la nascita di un bambino mutante alato aveva stabilito il tono disturbante della serie. Ma questa nuova iterazione raggiunge un livello di intimità psicologica che amplifica l’impatto emotivo.
Il metodo di Pennywise è ben noto ai lettori di Stephen King e agli spettatori delle precedenti adaptazioni. Il mostro utilizza sensi di colpa inconsci e traumi repressi per spezzare le sue vittime. Nel film “It” del 2017, aveva usato la paura di Beverly Marsh legata al padre abusivo per terrorizzarla. Qui, con Ronnie, sceglie una vulnerabilità ancora più profonda: la colpa esistenziale di essere sopravvissuta alla propria madre, di aver causato involontariamente la sua morte semplicemente venendo al mondo.
Anche Lilly non viene risparmiata. Nel supermercato, sperimenta un’esperienza altrettanto disorientante, dove il trauma legato alla fabbrica di sottaceti e alla morte del padre si manifesta attraverso un body horror paranoico. Clienti inquietanti la seguono tra gli scaffali, mentre barattoli di sottaceti prendono vita, riversando parti del corpo smembrate. Due sequenze parallele che dimostrano una verità incontrovertibile: questo Pennywise non ha intenzione di giocare con le regole conosciute.
La regia degli Muschietti si conferma audace e senza compromessi. Fratello e sorella, che avevano già dato prova del loro talento nell’horror con i due capitoli cinematografici di “It”, qui elevano ulteriormente l’asticella. La serie prequel non si limita a espandere la mitologia di Derry, ma esplora nuovi territori narrativi e visivi, spingendosi dove poche produzioni mainstream osano avventurarsi.
Ciò che rende queste sequenze così efficaci non è solo la violenza visiva o l’effetto shock. È la precisione chirurgica con cui colpiscono le paure universali. La colpa del sopravvissuto, il trauma generazionale, il terrore di essere responsabili della sofferenza altrui: sono temi che risuonano ben oltre i confini del genere horror. Pennywise diventa così non solo un mostro soprannaturale, ma la personificazione delle nostre angosce più profonde e indicibili.
Il contesto sociale in cui si muovono i personaggi aggiunge un ulteriore strato di oscurità alla narrazione. Il razzismo sistemico che minaccia di distruggere la famiglia di Ronnie rappresenta l’orrore che Derry produce in piena luce del giorno, complementare alle tenebre soprannaturali di Pennywise. La serie suggerisce che la vera maledizione della città non sia solo il mostro che si nutre di bambini ogni 27 anni, ma anche la corruzione morale che permea ogni istituzione.
Con il secondo episodio, “Welcome to Derry” lancia un messaggio chiaro agli spettatori: nessuno è al sicuro, e nessuna paura è troppo sacra per essere profanata. Pennywise sta appena iniziando il suo banchetto, e se questa è solo l’antipasto, non osiamo immaginare cosa ci aspetta nei capitoli successivi. La serie ha stabilito un nuovo standard per l’adattamento dell’universo di Stephen King, dimostrando che l’horror più efficace non è quello che vediamo sullo schermo, ma quello che continua a vivere nella nostra mente molto tempo dopo che i titoli di coda sono scorsi.