Ci sono storie che non ci abbandonano mai. Che ci portiamo dentro dall’infanzia come cicatrici invisibili, come domande senza risposta. Per Guillermo del Toro, quella di Frankenstein è una di queste ossessioni primordiali, un racconto che lo ha accompagnato fin da ragazzino e che ora, finalmente, prende forma sullo schermo.

Dal 7 novembre su Netflix, il regista messicano porta al cinema la sua personale visione del capolavoro di Mary Shelley, in un’operazione che va ben oltre il semplice adattamento cinematografico.

Ma perché proprio Frankenstein? Perché tornare su una storia raccontata infinite volte, un mito così stratificato da sembrare ormai impermeabile a nuove interpretazioni? La risposta sta nella natura stessa della creatura e del suo creatore, in quel legame perverso tra padre e figlio che del Toro ha già esplorato con il suo Pinocchio. Entrambe le storie, infatti, narrano di esseri assemblati da figure paterne che sfidano le leggi della natura, che osano sostituirsi al principio della creazione divina. È un tema che il regista sente visceralmente proprio, una riflessione sull’aspirazione umana di dare vita, di plasmare l’esistenza secondo la propria volontà.

C’è un dettaglio affascinante che spesso viene dimenticato: Mary Shelley, autrice di Frankenstein, era una donna che si confrontava con un’aspirazione peculiarmente maschile, quella di creare vita senza il contributo femminile, di usurpare il potere generativo della natura. Del Toro coglie questa sfumatura e la amplifica, trasformandola in una meditazione più ampia sul potere, sulla responsabilità e sull’abbandono.

Ma la vera rivoluzione del suo Frankenstein sta altrove. Dove Mary Shelley aveva dato voce al mostro attraverso il filtro del suo creatore, del Toro compie un passo ulteriore: restituisce alla creatura la possibilità di raccontare la propria versione della storia. Non più semplice oggetto di pietà o terrore, non più specchio delle ansie del suo creatore, ma soggetto narrante con una prospettiva autonoma, una dignità propria. È un atto di giustizia poetica che si inserisce perfettamente nella filmografia del regista messicano.

Perché se c’è un filo rosso che attraversa tutta l’opera di del Toro, è proprio la sua preoccupazione costante di restituire umanità a coloro che la società emargina e definisce mostri. Dai vampiri de La spina del diavolo alle creature anfibie di La forma dell’acqua, passando per i fantasmi di Crimson Peak, il suo cinema è sempre stato un rifugio per gli esclusi, un luogo dove la mostruosità esteriore nasconde spesso un’umanità più autentica di quella dei cosiddetti normali.

L’ossessione di del Toro per Pinocchio e Frankenstein non è casuale né separata. Sono due facce della stessa medaglia, due variazioni sul tema della creazione e dell’abbandono, del desiderio paterno e delle sue conseguenze. Il burattino che vuole diventare bambino e la creatura che anela al riconoscimento umano condividono lo stesso dolore esistenziale: essere stati chiamati alla vita senza essere davvero voluti, essere stati creati ma non amati.

Con questo nuovo adattamento, disponibile sulla piattaforma streaming, del Toro chiude un cerchio iniziato decenni fa, quando un ragazzino messicano scopriva per la prima volta la storia della creatura di Victor Frankenstein. E forse, in un’epoca in cui i veri mostri indossano giacca e cravatta, in cui l’esclusione sociale assume forme sempre più sofisticate, dare voce a chi voce non ha è più necessario che mai. Il mostro di Frankenstein, finalmente, può raccontarsi. E noi, forse, siamo pronti ad ascoltarlo davvero.

Di Martina Bernardo

Vengo da un galassia lontana lontana... Appassionata di cinema e serie tv anche nella vita precedente e devota ai Musical

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